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Channel: Homo Ludens – Dude Mag

Allenare la mente con i videogiochi

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Il sudoku, le parole crociate, quindi La settimana enigmistica e un buon numero di riviste simili, e poi rubriche come Scherzi da Peres su Linus, ma anche libri come quelli di Martin Gardner dedicati agli indovinelli matematici: sono soprattutto edicole e librerie a fornire materiale utile, come si usa dire, ad “allenare la mente”;  i videogiochi invece vengono visti soprattutto come strumenti per allenare i riflessi o la coordinazione. Eppure nel settore videoludico non mancano proposte indirizzate a chi voglia cimentarsi in sfide del genere; se anche nel divertimento vi piace trovare la richiesta di un reale impegno intellettivo, attenzione ai titoli che presentiamo in questa nuova puntata di Homo Ludens, perché sono in grado di mettere alla prova il vostro ingegno e di procurarvi più di qualche serio grattacapo.

 

 

Iniziamo da Cosmic Express, nuova creazione degli stessi sviluppatori già responsabili dell’incantevole A Good Snowman Is Hard To Build. Ogni livello qui è una colonia spaziale protetta da una campana di vetro che ha una sola entrata e uno o più fori di uscita: il giocatore ci arriva alla guida di un trenino (il cui pilota risulterà familiare a chi conosca il titolo precedente) e deve disegnare su una griglia un percorso che consenta di far salire a bordo alcuni simpatici alieni, per poi farli scendere in corrispondenza di certe strane scatole pronte a trasformarsi nelle loro abitazioni. Le varie colonie sono poi raggruppate in costellazioni, ognuna delle quali ha livelli di varia difficoltà; in questo modo prima ci si impadronisce delle meccaniche di gioco e poi si comincia a mettere a frutto quanto imparato in situazioni via via sempre più complesse. A rendere più difficili le cose interverrà poi l’introduzione di nuovi elementi come teletrasporti o creature gelatinose che renderanno inservibili ad altri alieni i vagoni sui quali solo salite, determinando così ordini di priorità con cui le cose possono iniziare a farsi davvero complicate. Non ci si illuda quindi di fronte alla grafica coloratissima e ai personaggi adorabili: la difficoltà di Cosmic Express è graduata con intelligenza e va da sfide elementari, poco più che tutorial, fino a livelli di sfida estremi e proibitivi, laddove la disposizione degli alieni da raccogliere e delle scatole verso cui condurli è infida, e la sola soluzione esistente è tanto intuitiva e lapalissiana a posteriori quanto impossibile da identificare senza aver prima proceduto per tentativi ed errori, arrivando persino a dubitare della sua esistenza.

 

 

Se avendo a che fare con colonie nello spazio ci si può aspettare qualche briga, quanto può essere difficile uscire da una piscina, o da un fiume o dal mare? In fin dei conti, non molto di meno, se abbiamo a che fare con Swim Out: un gioco molto elegante, sia a livello grafico che di concetto, sviluppato a Metz, in Francia, dal duo marito e moglie che ha dato vita a Lozange Lab. Qui, nei panni di un nuotatore, bisognerà guadagnare l’uscita dall’acqua facendo bene attenzione a non scontrarsi con altri bagnanti, e gente che prende il sole sui materassini, o sta seduta a bordo vasca, o è pronta a tuffarsi, e insomma elementi di disturbo di ogni risma: il giocatore dovrà osservare con attenzione i pattern seguiti dai vari ostacoli e capire di conseguenza quale percorso consenta di attraversare il livello evitando ogni collisione. Il gameplay si diversifica poi grazie alla progressiva introduzione di nuove varianti: i cordoli limitano le nostre possibilità di movimento e i getti d’aria ci fermano per un turno, mentre alcuni oggetti, come palloni e salvagenti da tirare, al contrario ci vengono in soccorso e possono essere usati per ottenere alcuni vantaggi, talvolta essenziali. La presentazione minimale, i colori tenui, l’assenza di musica e l’abbondanza di suoni estivi e acquatici contribuiscono a generare un’atmosfera rilassante che rende impossibile perdere la pazienza anche quando le cose si fanno più difficili.

 

 

Il terzo gioco di cui parliamo è uscito ormai un anno fa ma sembra il titolo perfetto da affrontare in questi giorni, con lo spirito di Halloween non ancora del tutto sopito: Slayaway Camp mette infatti il giocatore nei panni di un pazzo omicida il cui obiettivo è uccidere vari teenager che si trovano in campeggio. I livelli vengono presentati come spezzoni di film immaginari a cui è possibile accedere avanzando nel gioco, che si rivela essere così anche una parodia e un omaggio agli horror movie degli anni ‘80, con musiche e ambientazioni ed effetti sonori ad hoc, sempre in bilico tra distacco ironico e immersione, e diverse trovate poi sorprendentemente riuscite. Il livello di sfida è inizialmente molto basso, ma anche qui le cose non tardano a farsi più complicate: tale è la follia omicida del nostro alter ego che ogni volta che si sposta in una direzione la segue finché non incontra un ostacolo: perciò se non si pianificano con cura i propri movimenti si finisce facilmente per restare bloccati, non potendo più raggiungere un bersaglio o l’uscita dal livello; ci sono inoltre trappole mortali da evitare o di cui approfittare, così come caselle sorvegliate dalla polizia, e scenari da completare in un numero prefissato di mosse. Bisognerà dunque sfruttare tutte le tattiche a nostra disposizione: avvicinare una vittima per farla scappare, far squillare un telefono per farle cambiare posizione, rovesciare oggetti per modificare le proprie possibilità di movimento. Slayaway Camp offre inoltre una modalità meno truculenta, priva di sangue e di scene splatter,  anche se c’è da dire che la violenza del gioco è già stemperata dal fatto che i protagonisti siano tutti dei pupazzetti cubici.

 

Cosmic Express, Swim Out e Slayaway Camp sono disponibili per Windows, Mac e Linux, e sono stati provati su Manjaro; se preferite lo smartphone, li trovate tutti e tre anche su Apple Store e Google Play.

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Giochi nuovi per vecchi nostalgici

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Il passato, non è più una novità, da diversi anni sta tenendo in pugno il presente: tra remake e sequel cinematografici, dischi raccolti in cofanetti vari o ristampati in edizioni deluxe, è chiaro ormai come l’industria dell’intrattenimento consideri la nostalgia una miniera d’oro. Se basta fare leva sui ricordi per produrre contenuti di sicuro successo, perché mai rischiare investendo in qualcosa di nuovo?

Neanche il mondo videoludico è rimasto esente da questa tendenza, come dimostrano i trionfali ritorni di due console Nintendo classiche come NES e SNES, o le rimasterizzazioni delle avventure grafiche di una volta di cui abbiamo già parlato quando ci siamo occupati di Thimbleweed Park; o ancora, il numero sempre maggiore di canali Twitch dedicati al retrogaming, come Kenobisboch. Il cerchio poi si chiude se pensiamo alla recente operazione di Netflix, che ha scelto di accompagnare il lancio della seconda stagione di Stranger Things, serie nostalgica per eccellenza, pubblicando su Apple Store e Google Play un gioco a tema per tablet e smartphone, con grafica rigorosamente in stile 8-bit.

Il segreto sta nel riprendere formule vincenti mai davvero invecchiate, dare loro una nuova veste e tornare a proporle ai giocatori senza troppi stravolgimenti: non solo hanno già dimostrato di funzionare perfettamente, ma ora una patina di ricordi le ammanta e le rende irresistibili anche dal punto di vista sentimentale.

 

 

È quanto hanno fatto ad esempio gli sviluppatori dello studio parigino Lizardcube, che quest’estate hanno pubblicato Wonder Boy: The Dragon’s Trap, nuova versione del gioco uscito nel 1989 per Sega Master System. La storia inizia dove finiva il titolo precedente della serie: Wonder Boy si trova in un castello e, al culmine della sua impresa eroica, è armato fino ai denti e quasi invulnerabile, uccide il boss finale, un drago, e viene però a questo punto colpito da una maledizione, che lo trasforma in lucertola.

Qui comincia la nuova avventura, in cui il nostro eroe dovrà cercare di tornare alla forma umana passando per diverse altre mutazioni, ognuna delle quali gli garantirà nuove abilità, che gli consentiranno maggiori possibilità di esplorazione nel mondo del gioco. La struttura infatti non è lineare: quasi fosse un prototipo di open-world, Wonder Boy: The Dragon’s Trap non è diviso in livelli, e gli ostacoli che impediscono di avanzare nel gioco smettono di diventare tali non appena si acquisisce la capacità di nuotare, di camminare in verticale su alcune pareti, di volare, e così via.

Il game design era dunque piuttosto originale anche all’epoca, e i ragazzi di Lizardcube hanno fatto bene a non apportare alcuna modifica in questo senso: si sono occupati invece di rendere più moderna la grafica con nuovi asset, nuove animazioni e sfondi disegnati a mano, oltre che di realizzare una nuova colonna sonora. In molti apprezzeranno poi la possibilità di passare in qualsiasi momento dalla versione HD a quella a 8-bit, e dalle nuove musiche a quelle originali, e di godersi dunque il gioco con tutte e quattro le possibili combinazioni di grafica e sonoro.

 

 

Si sono spinti ancora più indietro nel tempo gli sviluppatori di Fabraz realizzando Slime-San: si tratta di un titolo che sarebbe stato bene anche in un vecchio cabinato da sala giochi, nel quale si controlla una creatura gelatinosa e la si deve aiutare a uscire indenne da un centinaio di livelli pieni di qualsiasi genere di calamità; essere uno slime ovviamente comporta la capacità di appiccicarsi a qualsiasi cosa e quindi di spostarsi rapidamente anche in verticale, e la velocità conta molto, perché ogni quadro deve essere completato entro un limite di tempo.

Il gameplay è frenetico, la risposta ai comandi perfetta come esige ogni titolo di questo tipo, la colonna sonora chiptune è l’accompagnamento ideale, e si torna insomma proprio ai concetti base e alle origini della storia dei videogiochi, quando l’unica cosa che contava era il divertimento. Tra un livello e l’altro è possibile girovagare in una città per fare acquisti e modificare l’aspetto estetico del proprio slime, oppure per cimentarsi con vari mini-giochi.

La tavolozza dei colori utilizzata è inoltre ridotta al minimo, e questi mondi di solo bianco, blu, verde e viola ricorderanno di certo ai meno giovani i titoli con cui si giocava ai tempi in cui le schede grafiche utilizzavano lo standard CGA, mentre per le nuove generazioni invece immagino valga soprattutto il fascino che è tornato ad avere lo slime e tutto ciò che è gelatinoso.

 

 

Lo studio indipendente Pocketwatch Games, già responsabile del fortunato Monaco, si rivolge invece agli appassionati di un genere ormai quasi caduto nel dimenticatoio come quello degli RTS, gli strategici in tempo reale, con il suo nuovo titolo, Tooth And Tail. Lo si sarebbe potuto collegare a Fantastic Mr. Fox di Wes Anderson, se solo quest’ultimo fosse stato un film di guerra, perché qui a fronteggiarsi ci sono scoiattoli, gufi, volpi, camaleonti, falchi, puzzole e via dicendo.

Il giocatore non controlla direttamente le proprie unità, ma impersona un condottiero che ha diversi compiti: costruire fattorie per avere sempre una buona scorta di cibo, spendere questo cibo per creare le tane dalle quali verranno fuori le proprie armate, e guidare queste ultime sul campo di battaglia, dove il nemico può essere sconfitto sia distruggendo tutte le sue fattorie sia prendendolo per fame, impedendogli cioè di costruirne di nuove. Le fattorie infatti dopo alcuni minuti smettono di produrre cibo, e si è presto costretti a muoversi lontano dalla propria base iniziale: questo fa sì che le partite a Tooth and Tail siano sempre piuttosto rapide, e le sfide online, che sono il cuore del gioco, spesso infatti si concludono in meno di dieci minuti.

Sono finiti dunque i tempi in cui bisognava portare viveri e bevande vicino al PC prima di iniziare una sessione di Starcraft, Age of Empires o Command & Conquer. Ma sarebbe un errore pensare che sia un gioco semplice. La generazione casuale delle mappe e il fatto che in multiplayer si debba comporre il proprio set di unità scegliendone sei tra le sedici disponibili rendono le partite di Tooth and Tail sempre diverse e imprevedibili, dove vince di solito chi è più capace di interpretare le situazioni, di adattarsi alla strategia dell’avversario e di prendere le decisioni giuste nel minor tempo possibile. La sua straordinaria profondità gli è già valsa una candidatura a miglior gioco strategico dell’anno, al fianco di produzioni che hanno alle spalle investimenti milionari.

 

Wonder Boy: Dragon’s Trap, Slime-San e Tooth and Tail sono disponibili su PC per sistemi Windows, Mac e Linux, e sono stati provati su Manjaro. Tutti e tre i giochi hanno inoltre alcune versioni console, per cui se siete in possesso di PlayStation 4, Xbox One o Nintendo Switch date un’occhiata ai rispettivi siti.

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«Sembra che le cose non sempre vadano nella direzione che ti aspetti» — Intervista ai creatori di Owlboy

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Ho passato gli ultimi mesi chiedendomi quale fosse il modo migliore per chiudere questo primo anno di Homo Ludens. Ho pensato a un listone o a un qualche tipo di riassunto dell’anno videoludico; poi mi è sembrata invece una buona idea proporre un secondo articolo monografico, dopo quello su Thimbleweed Park, dedicato a un altro gioco che mi fosse sembrato particolarmente importante: la scelta è caduta su Owlboy. Pubblicato per la prima volta nel novembre del 2016, è a tutti gli effetti un titolo di quest’anno, di gennaio per la precisione, dal punto di vista di questa rubrica, dove i giochi vengono provati su Linux. Non è particolarmente lungo né particolarmente difficile, e lo dimostra il fatto che l’ho finito in 11 ore. Però è particolarmente bello, oltre che divertente, originale e a suo modo innovativo.

È la storia di Otus, un giovane gufo muto: nonostante abbia la capacità di volare non si è mai allontanato dal suo villaggio, Vellie, e lì conduce una vita tranquilla, quando una banda di pirati comincia a seminare morte e distruzione nella vicina città di Advent e nelle zone circostanti. Aiutato dal suo amico Geddy, e poi da altri personaggi, Otus dovrà sventare la minaccia costituita dai pirati, scoprendo al tempo stesso qualcosa su di sé e sulla sua gente. Owlboy, frutto di ben nove anni di lavoro, è un gioco perfettamente riuscito sotto ogni aspetto: pixel art, game design, narrazione. Ho fatto due chiacchiere con i ragazzi dello studio D-Pad, i creatori di questa meraviglia, e non ne è uscito fuori solamente un bel ritratto di Owlboy, dei suoi contenuti e del modo in cui è stato realizzato: abbiamo finito col parlare anche di cose che non mi sarei minimamente aspettato.

 

 

Iniziamo con le presentazioni. Quale team ha dato vita a Owlboy e allo studio D-Pad?

Simon: Mi chiamo Simon. Sono co-CEO e direttore artistico di D-Pad. Ho ideato la prima bozza di Owlboy e ne ho diretto lo sviluppo sia come pixel artist che come responsabile del progetto.

Jo-Remi: Mi chiamo Jo e seguo e coordino giorno per giorno le attività di D-Pad. Mi occupo del settore business, ma anche del gameplay, del design e di alcune parti dell’impianto narrativo in Owlboy.

Adrian: Io sono Andrian e il mio focus è sul design e sulla struttura dei livelli, e poi su qualsiasi altra cosa di cui mi possa occupare.

Henrik: Io sono Henrik, mi sono occupato della programmazione e della scrittura della storia di Owlboy.

Come vi è venuto in mente di basare il gameplay sulla capacità di volare? E come mai avete scelto come protagonista proprio un gufo? Un gufo muto, per giunta.

Simon: L’idea iniziale è stata ispirata da alcuni esperimenti mentali basati su Kid Icarus e Super Mario Bros. 3 per NES. In entrambi questi titoli si gioca con un protagonista che di base ha una qualche capacità di volare. Pit può utilizzare un oggetto per fluttuare, ma non usa mai le sue ali attivamente, e Mario può librarsi in aria usando i costumi Racoon e Tanooki, ma solo in alcune occasioni.

Era un pensiero accattivante quello di avere un mondo che si sviluppa in verticale come quello di Kid Icarus, pieno di stanze segrete e dungeon, ma fare in modo di trasformare l’abilità di Mario nella capacità di sbattere le proprie ali e andare a esplorare gli scenari in altezza. All’inizio lo scopo doveva essere trovare isole nascoste nel cielo. Magari isole abitate da persone che parlano una lingua sconosciuta. Questo concept alla fine ha posto le basi per un protagonista letteralmente muto, che non può comunicare a parole e deve trovare altri mezzi per farlo.

Il gufo non è stata la prima cosa che mi è venuta in mente. Credo che un alieno, un insetto volante e un cane alato fossero i più seri candidati al ruolo di protagonista finché non ho abbozzato un gufo a caso, che aveva un mantello anziché le ali. Questo personaggio ha finito col diventare tutto ciò che è Owlboy.

 

 

Owlboy secondo me somiglia molto a ciò che sarebbe stato Laputa: Castle In The Sky se fosse stato un gioco Nintendo invece che un film d’animazione. Amate le opere di Miyazaki? Quali sono state le vostre fonti di ispirazione?

Simon: Adoro i film di Miyazaki, ma non ne ho visti tanti purtroppo. Inaspettatamente, Owlboy non è stato influenzato per nulla dalle sue opere, dato che fino a qualche tempo fa conoscevo ben poco del suo lavoro. Anche se riesco a trarre ispirazione un po’ ovunque, non si può negare che la serie di Legend of Zelda abbia avuto un discreto impatto sullo sviluppo. Le sagome semplici ma efficaci dei personaggi di Windwaker. La malinconia e i significati reconditi di Majora’s Mask. Per non parlare delle belle ambientazioni e dell’uso del colore. Ma di certo le influenze non si esauriscono con Zelda. Potrei passare un’intera giornata a elencare giochi che sono stati d’ispirazione. La serie di Megaman, Breath of Fire IV, Chrono Trigger e tanti altri titoli che giocavamo in quei giorni. Ma altre cose ancora sono venute fuori viaggiando. Molte delle mie prime bozze erano solamente interpretazioni di posti in cui ero stato. Si sono accumulate tante cose diverse nel corso di nove anni.

Il gameplay mi sembra avere caratteristiche RPG, perché presto si forma una squadra di personaggi; ma Owlboy resta comunque fedele ai princìpi dei classici platform 2D, per quanto poi possa esserlo un gioco in cui si vola: i diversi compagni di viaggio si usano come se si trattasse di equipaggiamenti per combattere, ognuno portando con sé un’arma diversa utile a scopi diversi. È una trovata notevole. Come ci siete arrivati?

Simon: All’inizio, la principale meccanica del gioco consisteva semplicemente nel prendere oggetti per usarli. Abbiamo poi finito col fare qualche prova per vedere cosa succedeva se si potevano portare in giro i personaggi, e ci è sembrato che fosse divertente poterli controllare separatamente. Prendendo esempio da Megaman X, abbiamo pensato che sarebbe stato interessante permettere al giocatore di switchare tra i vari membri del gruppo durante il gioco. Questo si inseriva anche nella narrazione di un Otus incapace di combattere da solo e bisognoso di fare squadra con altri personaggi che lo aiutassero a superare gli ostacoli nella sua vita.

Di sicuro all’inizio questo sistema era molto meno rifinito di quanto non lo sia adesso. In effetti, teletrasportare i vari membri della squadra per via aerea non era una cosa che avevo preso in considerazione. Avevo pensato a cosa mi sarebbe piaciuto vedere un giorno in un ipotetico sequel, e mi ero appuntato questa soluzione, finché all’improvviso non mi sono reso conto che quella era una cosa da implementare subito.

 

 

Questo aspetto del protagonista merita di essere approfondito. A Otus mancano la gloria e i riconoscimenti dell’eroe, ma anche la colpa e la macchia dell’antieroe, dato che in realtà si trova sempre sulla pista giusta, quella che lo porterà a scoprire come stanno davvero le cose nel mondo di Owlboy. Si tratta insomma di un protagonista positivo nel quale però quasi nessuno ripone troppa fiducia. Come mai avete deciso di raccontare la storia in questo modo?

Jo-Remi: Gran parte della storia è venuta fuori durante lo sviluppo del gioco. Per qualche motivo abbiamo finito con il proiettare sui personaggi quelle che erano le nostre frustrazioni e insicurezze. È stato il risultato di una serie di insuccessi, un anno dopo l’altro. All’inizio avevamo annunciato l’uscita di Owlboy per il 2011. Ogni anno abbiamo rimandato la pubblicazione, e ci siamo sentiti un disastro. Solamente nell’ultimo anno di lavorazione i vari pezzi hanno trovato la loro giusta collocazione. La storia del gioco ha iniziato a riguardare sempre meno la minaccia costituita dai pirati, e molto di più i protagonisti stessi.

Henrik: Faceva parte del progetto di Simon fin dall’inizio che Otus non fosse un eroe, e ci è sembrato che questo desse alla storia una forza che altrimenti non avrebbe avuto. Fa in modo che si crei dell’empatia tra il giocatore e Otus, e prepara il contesto per tutte le altre cose che accadono. I personaggi che hanno creduto in Otus diventano molto più significativi, e al giocatore viene voglia di battere il gioco e di mettersi alla prova. Questo impulso alimenta tutte le sequenze successive.

Gli elementi presi in prestito dai giochi di ruolo e la scarsa fiducia di cui abbiamo appena parlato sono ottimi modi per fare in modo che ci si affezioni alla propria squadra. Il modo in cui la si mette insieme è abbastanza meccanico, ma l’amicizia di Otus con Alphonse, Twig e ovviamente Geddy è qualcosa che si può sentire. Ci sono anche momenti molto divertenti. Come sono nati questi personaggi?

Jo-Remi: Inizialmente, Geddy era l’unico personaggio che sapevamo avrebbe fatto parte della squadra. Tutti gli altri erano opzionali (un po’ come in Baldur’s Gate, dove puoi arrivare alla conclusione del gioco senza incontrare tutti i personaggi giocabili).

Durante lo sviluppo ci siamo resi conto che avremmo dovuto dedicare più tempo alla costruzione dei personaggi, e dare loro più spazio nella storia. Volevamo che venissero avvertiti come parte necessaria della squadra. Abbiamo anche scartato alcuni personaggi giocabili per lavorare su quelli che avevamo già. Kernelle era la più importante. In origine era l’ultima a unirsi al gruppo, armata con un lanciarazzi.

 

 

Ci sono anche alcune scene toccanti in Owlboy. Mentre è sulle tracce dell’antica civiltà dei gufi e delle loro tecnologie, il giocatore si sente come in Tomb Raider o in Indiana Jones, poi arriva la guerra con i pirati e ci si trova di fronte al villaggio di Vellie pieno di rifugiati senza più una casa, e al cimitero pieno di vittime dalla città di Advent, e improvvisamente non sembra più un mondo così fantasy. Mi piacerebbe sapere di più su questa scelta.

Jo-Remi: Questa scelta è stata provocata da un tragico incidente nella mia vita. Stavamo andando a cena da un mio caro amico, in occasione del suo imminente trentesimo compleanno. Era in gran forma, era appena andato a vivere insieme alla sua ragazza, e aveva ancora davanti i suoi giorni migliori! Mentre stavamo per arrivare a casa sua, ha avuto un improvviso collasso, e ha perso la vita a causa di un difetto cardiaco di cui non era a conoscenza. Non ho mai vissuto uno shock più sconvolgente.

Questa cosa mi ha fatto sentire fragile. Sembra che le cose non sempre vadano nella direzione che ti aspetti.

In quel periodo stavano cercando di capire cosa fare con la città di Advent. Volevamo che fosse un posto enorme, pieno di nuovi personaggi, di missioni secondarie e di segreti da scoprire. Advent era un elemento del gioco decisamente promettente.

Invece, ho suggerito a Simon: «E se distruggessimo Advent?».

Con il lancio del gioco abbiamo infine avuto la possibilità di vedere la reazione dei giocatori. Le loro facce scioccate mi hanno fatto capire che il messaggio era arrivato.

Simon: Un aspetto importante del mio approccio al game design è che non bisogna aver paura di fare affrontare al giocatore esperienze difficili o spaventose, perché questo aiuta a farle comprendere meglio, e permette di raccontare storie che altrimenti dovresti scartare. I ragazzi possono gestire argomenti sorprendentemente difficili. La cosa importante è presentare questi argomenti in modo che possano essere compresi. La morte e la perdita in Owlboy sono tangibili perché abbiamo rappresentato chiaramente ciò che è avvenuto e quale impatto ha avuto sui personaggi del mondo del gioco.

Finora non ho visto nessuno considerare i temi più duri che abbiamo affrontato. Anche se sospetto che molti altri sviluppatori inconsciamente si tengano alla larga da questi temi per paura di una reazione negativa da parte del pubblico.

Io penso che la gente possa gestire e capire certi argomenti senza problemi.

Come mai c’è voluto così tanto, nove anni, per finire Owlboy?

Adrian: In parte è stata semplicemente questione di trovare il tempo per sviluppare il gioco, tra studio, lavoro e altre responsabilità. C’è poi voluto del tempo per consolidare alcuni elementi di design, e per capire come affrontare l’organizzazione di un progetto così vasto. Lungo il percorso ogni membro del team ha avuto esperienze di vita che hanno cambiato il tipo di storia che volevamo raccontare e il modo in cui lo avremmo fatto. Il game design si è evoluto anche in questo modo. Ci sono state anche occasioni in cui ci siamo resi conto che alcune parti del gioco non erano abbastanza buone, e non si legavano nel modo giusto con tutto il resto.

Simon: Abbiamo fatto molta autocritica con Owlboy e ci siamo rifiutati di pubblicare qualcosa che non fosse all’altezza. Avendo poca esperienza nel settore e non avendo praticamente ancora mai realizzato un solo gioco, abbiamo dovuto imparare strada facendo. Nelle prime fasi abbiamo creato una parte del gioco alla volta, perciò più avanti nello sviluppo è diventato decisamente difficile assemblare queste diverse aree mantenendo una fluidità e una scorrevolezza. Alla fine tagliare alcune cose si è rivelata una buona scelta, ma onestamente penso che l’unica vera risposta a questa domanda sia che è questo il tempo che ci mettono cinque persone a sviluppare un gioco del genere.

 

 

Come avete sostenuto i costi di sviluppo di Owlboy per un tempo così lungo? Avete fatto altri giochi, siete riusciti a ottenere fondi pubblici, avete smesso di mangiare?

Jo-Remi: La nostra principale fonte di finanziamento sono stati mia madre e mio padre. Non perché ci abbiano dato dei soldi, ma perché ci hanno fornito un posto in cui stare, che era tutto ciò di cui avevamo bisogno per completare il progetto. Dato che Owlboy è un gioco 2D in pixel art, non ha richiesto l’utilizzo di strumenti costosi per portarne avanti lo sviluppo, e il nostro team è sempre stato abbastanza piccolo da contenere le spese. Abbiamo pubblicato Savant: Ascent che ci ha dato una piccola spinta, e ci ha tenuto ben nutriti.

Il vostro team è diviso tra Norvegia, Canada e Stati Uniti: in che modo avete lavorato, come siete riusciti a coordinare lo sviluppo?

Jo-Remi: Abbiamo usato principalmente Skype e le e-mail. È stato difficile restare coordinati, ma ce l’abbiamo fatta finora. Non abbiamo mai avuto un vero ufficio, e la nostra sola possibilità era il lavoro da casa. Le nostre vite fino ad ora sono consistite soprattutto nel lavorare sul gioco e mandarci aggiornamenti sui progressi fatti di tanto in tanto.

Non è facile parlarne senza spoiler sulla fine del gioco, ma pensi che potremo tornare nel mondo di Owlboy in futuro, in un altro gioco?

Simon: Se mai visiteremo ancora il mondo di Otus, sarà in una forma non immediatamente riconoscibile.

 

Owlboy è disponibile su PC per sistemi Windows, Mac e Linux, ed è stato provato su Manjaro. Il 13 febbraio 2018 usciranno anche le versioni per Nintendo Switch, Playstation 4 e Xbox One.

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Tra i ricordi di un uomo in punto di morte: Finding Paradise

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Con questo articolo inizia la nostra collaborazione con Ludica, una nuova rivista online dedicata alla cultura del videogioco. Buona lettura.

 

È uscito a inizio anno Finding Paradise, l’atteso sequel del fortunato To The Moon. Tornano in azione i due dottori Eva Rosalene e Neil Watts, il cui compito sarà ancora una volta quello di provare a esaudire l’ultimo desiderio di un uomo che sta per morire. In che modo? Entrando nella sua mente, esplorando i suoi ricordi e cambiando qualcosa: il passato non si può modificare, ma la memoria sì, e dunque c’è sempre la possibilità di far quantomeno credere a qualcuno di aver vissuto la vita che avrebbe voluto vivere.

In Finding Paradise il giocatore ha ben poco da fare, se non seguire l’evolversi della storia. Per fortuna si tratta di una storia ben scritta: evita facili eccessi di sentimentalismo, regala diversi momenti divertenti, approfondisce molti dei temi che affronta, e spiazza con un plot twist inserito al momento giusto. Proprio come farebbe un buon film, o un bel romanzo. Quella che segue è una chiacchierata con Kan Gao, perché non c’è modo migliore per entrare nel mondo di un videogioco che attraverso le parole di chi l’ha creato.

 

 

Ciao Kan. Puoi presentare te stesso e Freebird Games ai nostri lettori?

Eccoci. Mi chiamo Kan, sono lo sviluppatore e il compositore di Freebird Games, uno studio indie che realizza videogiochi narrativi. Probabilmente siamo conosciuti soprattutto per To The Moon e Finding Paradise, una serie che parla di due dottori che viaggiano attraverso i ricordi dei loro pazienti in punto di morte, allo scopo di esaudirne l’ultimo desiderio.

Il tuo gioco precedente, To The Moon, è stato un grande successo. Te lo aspettavi? Ha cambiato il modo in cui ti vedi all’interno dell’industria dei videogiochi?

No di certo; credo sia saggio non aspettarsi mai niente in un’industria di questo tipo, ci sono un sacco di fattori incontrollabili che possono fare in modo che qualcosa diventi importante. Speravo che la storia riuscisse a colpire, è ovvio, e sono grato del fatto che abbia raggiunto molta più gente di quanto avessi potuto immaginare, portandomi sotto i riflettori in un modo che mi ha costretto ad aprirmi di più come persona.

To The Moon, così come Finding Paradise, ha come protagonisti i dottori Eva Rosalene e Neil Watts, il cui lavoro consiste nel viaggiare tra i ricordi dei loro pazienti. Com’è nata questa idea?

Era un periodo nel quale pensavo molto alla mortalità, in parte per via del fatto che mio nonno era spesso malato e ricoverato in ospedale. Mi sono chiesto se avrei avuto dei rimpianti quando fosse venuto il mio momento, e cosa avrei fatto se avessi avuto la possibilità di tornare indietro e cambiare qualcosa. La storia dal punto di vista dei dottori alla fine ha preso spunto da questo.

Finding Paradise è un gioco a sé stante ma anche un sequel di To The Moon: avevi già previsto che la storia dei due dottori dovesse continuare, raccontando nuovi aspetti del loro lavoro?

Sì. Pensavo che l’impostazione della storia fosse molto adatta per una serie, per il modo in cui ogni singola storia si sviluppa, e ogni volta c’è una completa libertà di andare ad esplorare qualsiasi esperienza uno possa fare nella vita. Finding Paradise e To The Moonsono speciali, in ogni caso, nel senso che contengono le due facce della medaglia rappresentata da questa impostazione in modo profondo, e si completano a vicenda.

 

Fonte: press kit

 

Nel frattempo hai fatto uscire A Bird Story, un breve gioco che ora sembra quasi un’anticipazione di Finding Paradise.

A Bird Story era un gioco non previsto, che ho realizzato più per me stesso che per il pubblico. A volte mi chiedo ancora se avrei dovuto pubblicarlo, ma sono contento che, anche se non tutti, molti lo abbiano apprezzato.

In Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi, Zygmunt Bauman ha scritto: “c’è sempre il sospetto che uno stia vivendo una menzogna o un errore; che qualcosa di essenziale sia stato tralasciato, perso, trascurato, non sperimentato o non esplorato; che un obbligo vitale nei confronti del nostro autentico sé sia stato ignorato, o che alcune occasioni di provare una felicità sconosciuta, completamente diversa da qualunque felicità già sperimentata, non siano state colte in tempo e siano ormai perse per sempre”. Pensi che siamo sempre più ossessionati dai rimorsi, dai rimpianti, dalle possibilità che non abbiamo colto e dalle vite che non abbiamo vissuto? E che in qualche modo i tuoi giochi abbiano intercettato un sentire profondo dei nostri giorni?

Penso che in senso stretto la felicità sia legata alla semplicità, e l’infelicità, insieme ai rimpianti e a tutto ciò che ne deriva, è legata alla complessità. Man mano che il mondo diventa più complicato e pieno di scelte e percorsi che confondono, avremo naturalmente più dubbi e affaticamento decisionale. Anche se Finding Paradise si occupa più direttamente del concetto umano di rimpianto, penso che entrambi i giochi parlino in realtà del desiderio di semplicità in mezzo al caos, qualcosa che forse anche molti di noi stanno cercando.

Tutti i tuoi giochi, anche i tuoi primi lavori, hanno la classica estetica dei RPG: è qualcosa che dipende solamente dal software che usi (RPG Maker XP) o ha anche a che vedere con i tuoi gusti come giocatore?

Probabilmente entrambi, come l’uovo e la gallina. Credo che, dato il tipo di giochi che scrivo, quel motore sia il più efficiente nel produrre qualcosa su cui posso avere un controllo completo, in ogni dettaglio. Inoltre, crescendo, i RPG sono stati il mio genere preferito, anche se non sono mai stato un grande estimatore delle parti di combattimento, ho sempre voluto solamente continuare la storia.

 

Fonte: press kit

 

Ti sei anche occupato della colonna sonora di Finding Paradise: com’è stato scrivere sia la storia che le musiche che la accompagnano? Ti ispirano le colonne sonore dei film? C’è un brano, Kinda Like an Indie French Film, che mi ricorda il lavoro di Jean Constantin per I Quattocento Colpi, e ci sono anche altri riferimenti cinematografici nel gioco.

Mi aiuta molto quando sono bloccato! Quando non sono sicuro di come procedere con i dialoghi, ad esempio, scrivere la musica per quella scena crea l’atmosfera e i dialoghi diventano molto più facili – e vice versa. È come un buffer mentale per far venire fuori qualcosa prima in una lingua diversa, e questo aiuta molto. Per quanto riguarda l’ispirazione, sono un grande fan della musica sia per i film che per i videogiochi, da Yasunori Mitsuda ad Alan Silvestri. Parodie come Kinda Like a Indie French Film e Think Quietly sono sempre divertenti da fare.

I videogiochi si stanno prendendo sempre più spazio come medium adatto anche a raccontare semplicemente una storia. Penso a To The Moon e Finding Paradise, ma anche a Oxenfree, a Life Is Strange, ai titoli di Telltale Games. Sono storie interattive, in cui l’unica cosa che conta è la trama. È sorprendente che un’idea così tradizionale sia stata esplorata molto meno rispetto a concetti di game design avanzati come il roguelike o il tower defense. E tu hai già messo qualche pietra miliare su questo percorso.

Penso sia dovuto al fatto che, anche se è un concetto tradizionale, devia molto da quello che è stato il punto di partenza nell’uso del medium videoludico. E forse una parte della ragione per cui sta diventando sempre più prominente negli ultimi anni è che realizzare giochi è diventato più accessibile – per cui anche chi è più che altro uno scrittore, come me, può cimentarsi, laddove studi più grandi hanno molta meno libertà di prendersi rischi simili. Mi aspetto che il trend continui, in modo tale che i giochi diventino più diversificati senza che questo incida sul mercato dei giochi “tradizionali”, poiché ci sarebbero solo più videogiochi sia in termini di quantità che di tipo. Il che è fantastico, perché forse il nostro tipo preferito deve ancora essere fatto.

Quali sono i tuoi giochi preferiti di sempre, e quali tra le uscite più recenti?

La maggior parte dei miei preferiti sono in realtà giochi di ruolo cinesi con cui sono cresciuto e che non hanno mai avuto un rilascio internazionale, tra cui The Legend of Sword e Fairy and Tun Town. Anche la serie Mass Effect e Dragon Age: Origins sono nella lista. Ho anche avuto un debole per una particolare meccanica multi-personaggio di scelta dei dialoghi presente in Divinity: Original Sin, che dà una bella sensazione del tipo scrivi-la-tua-storia che non è presente nella maggior parte dei giochi di quel genere.

 

Tra i ricordi di un uomo in punto di morte: Finding Paradise è apparso la prima volta su Ludica.

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Rassegna videoludica di maggio

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Homo Ludens torna in una nuova veste con i contributi dei redattori di Ludica, che a turno ci parleranno delle ultime novità che hanno avuto modo di provare su PC e console.

 

Conan Exiles
Funcom

 

A pochi giorni dal lancio ufficiale, Conan Exiles mostra tutti i pregi di una strategia early access sfruttata a dovere. Sfruttando il feedback di chi si cimenta col gioco da più di un anno, la Funcom ha rilasciato una versione ripulita dai bug più fastidiosi e ricostruita da zero nei suoi punti meno convincenti — come il sistema di combattimento, che adesso è più realistico e gratificante. L’intento della casa norvegese era chiaro: accaparrarsi una fetta del settore survival che rimane tra i più gettonati su Steam. Il prodotto finale offre tuttavia qualcosa in più, tra dettagli mutuati dai giochi di ruolo e un’ambientazione affascinante.

Certo, al primo impatto con Conan Exiles ci si assesta sui binari del survival più canonico, sullo stile di Ark: Survival Evolved suoi limiti compresi. Primo fra tutti la ripetitività delle azioni, e un certo senso di disorientamento. Ci ritroviamo crocifissi in mezzo a una landa ostile, nudi come mamma ci ha fatti, con lo stesso Conan il Barbaro che ci libera e ci spinge all’avventura. Da lì esploriamo il deserto (ma più avanti incontreremo giungle, montagne e caverne) e familiarizziamo col sistema di crafting, assai elaborato come tradizione del genere, mentre gli obiettivi di gioco ci guidano attraverso i primi passi: costruire un giaciglio, raccogliere materiali, cacciare animali e allestire un falò per cucinarne la carne, dissetarsi da una fonte, respingere i primi nemici. Nel giro di qualche ora, grazie alla buona curva di apprendimento, saremo in grado di tirare su una casa mentre nella modalità online potremo collaborare con altri giocatori per un’esperienza di gioco più pericolosa, ma anche più ricca. Da subito si intravedono le potenzialità di un titolo che ci porterà, con dedizione, a edificare cittadelle su cui regnare — e in cui ospitare, a seconda dei gusti, templi di devozione, fosse per cannibali, mercati di schiavi o feste orgiastiche.

 

 

Quest’ultimo punto ci introduce al piatto forte di Conan Exiles. Il mondo è fedele alle opere di Robert E. Howard, fin dall’editor iniziale che permette di scegliere tra etnie come Cimmeri o Hyboriani. È truculento, brutale, percorso da una certa vena sensuale — la nudità aiuta, e anche il fatto che le fibre muscolari degli ipertrofici personaggi siano più dettagliate delle espressioni facciali. In una parola, è un mondo vivo. L’unico metro di giudizio è la lotta, e ogni cosa ha il giusto prezzo — anche l’aiuto degli dei, che interverranno tramite un avatar, in cambio di un severo regime di preghiere e sacrifici. Le urla dei nemici e i lamenti delle femmine, per citare proprio Conan il Barbaro: questo è quanto offre Conan Exiles, innestato su una classica ossatura survival.

Andrea Cassini ha provato Conan Exiles su PlayStation 4.

 

Crossing Souls
Fourattic

 

Avete mai desiderato che uno vostri film preferiti tra i classici degli anni ‘80, magari Schegge di follia, I goonies o Stand by me ricordo di un’estate, fosse un videogioco? Beh, se lo fosse stato sarebbe somigliato molto a Crossing Souls, sviluppato dallo studio spagnolo Fourattic e pubblicato da Devolver Digital. Ambientato nel 1986, strapieno di riferimenti e citazioni pop in grado di spezzare il cuore ai più nostalgici, il gioco ci mette nei panni di cinque ragazzi che si trovano a vivere un’incredibile avventura nella loro cittadina californiana.

Unità di luogo dunque, ma con una trovata che moltiplicherà i livelli di realtà (come il sottosopra di Stranger Things o i diversi piani temporali di Dark, giusto per tirare in ballo due produzioni Netflix altrettanto legate a quel decennio). Il grado di immersione è notevole grazie alla splendida colonna sonora e alla cura di ogni dettaglio: i walkie talkie, le biciclette, la scuola, il cinema, la casa sull’albero, la tavola calda, la sala giochi, le bande giovanili — tutti gli elementi tipizzanti dell’immaginario anni ‘80 sono là dove ci si aspetta di trovarli, e danno vita a un mondo vivo, coloratissimo, perfettamente reso su schermo in pixel art.

 

 

Il gioco inizia mettendo insieme un gruppo di amici in una prima fase davvero ben scritta che funziona sia come tutorial che come introduzione al gruppo di personaggi giocabili, tutti molto stereotipati proprio come in quei film teen horror in cui è facile capire chi sarà il primo a fare una brutta fine; qui invece si capisce subito quale funzione potrà avere in seguito ogni personaggio: il protagonista servirà soprattutto in combattimento, l’unica ragazza del gruppo è agile e veloce e dunque molto utile quando sarà necessaria rapidità di esecuzione, l’amico forzuto e un po’ in sovrappeso riuscirà a spostare qualsiasi ostacolo pesante, mentre l’amico nerd e secchione consentirà di risolvere molte situazioni grazie a invenzioni e strumenti tecnologici, e poi c’è il fratellino più piccolo, di cui però è impossibile parlare senza spoiler.

Una volta messa in moto la storia, scopriremo una trama che a livello di gameplay è ben diversificata tra sezioni di combattimento, di puzzle solving e di platforming, e spesso per andare avanti sarà fondamentale capire in quale modo (e in quale ordine) è possibile utilizzare le abilità dei vari personaggi a disposizione per sbloccare l’impasse. Alcune perplessità restano sul lavoro di ottimizzazione, considerati i frequenti casi di framedrop in alcune aree, e sulla precisione dei controlli, che rendono frustranti soprattutto certe sezioni platform, ma non si tratta di difetti in grado di rovinare l’esperienza di gioco.

Gilles Nicoli ha provato Crossing Souls su Linux.

 

The Thin Silence
TwoPM Studios

 

Ezra non corre. A mala pena salta — nella lista dei comandi, il tasto è abbinato alla voce “Jump (a little)”, da intendersi letteralmente. Del resto, come dargli colpa: il nostro protagonista è apparentemente responsabile dalla rovina di un’intera nazione, a seguito di una rivoluzione finita male; il peso della responsabilità personale e delle perdite subite lo hanno gettato in una depressione profonda che si manifesta nei suoi movimenti alla moviola — il giocatore sperimenta in prima persona la fatica di rialzarsi e andare avanti tipica di chi ha sofferto una lunga depressione.

The Thin Silence è un gioco sulla rielaborazione: attraversando una wasteland di caverne, campi di rifugiati, basi militari abbandonate e vestigia di una cultura distrutta dovremo risolvere puzzle ambientali (sfruttando un semplice sistema di crafting tra gli oggetti dell’inventario) e collezionare fotografie, lettere, hackerare computer per sbloccare file, collezionare i frammenti di un benintenzionato pamphlet agitatore che ha però contribuito a un’annichilente Rivoluzione Culturale.

 

 

L’accattivante estetica pixel art e la colonna sonora ambient (rumori, static, melodie scarne) hanno indubbiamente il loro fascino, ma c’è qualcosa di non pienamente riuscito in questa fatica del duo australiano TwoPM. The Thin Silence presenta infatti alcuni tipici problemi degli indie che puntano tutto sul minimalismo: il gameplay è di base una pura ossatura che scommette su un totale coinvolgimento emotivo del giocatore. Questo comporta che tanto l’azione di gioco quanto la trama risultano come troncati, lasciati a metà, sineddochi che stanno per qualcosa che il giocatore non riceve mai del tutto.

Raccontare la trama per indizi anziché tramite esposizione è un’arte molto delicata, ed è facile toppare, soprattutto se si mette troppa carne al fuoco: tentando di mischiare temi importanti come depressione e responsabilità politica, TTS — nella sua brevità (5 ore ca.) — sembra prendere troppe scorciatoie argomentative senza averne la maturità sufficiente. L’esperienza è più interessante per le sue ambizioni che non per il prodotto finale, ma val comunque un tentativo se vi sorride l’idea di un titolo veloce basato su rompicapi con suggestivi ambienti 2D.

Giorgio Chiappa ha provato The Thin Silence su Mac.

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Rassegna videoludica di giugno

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Ogni mese i redattori di Ludica ci parlano dei migliori videogiochi che hanno avuto modo di provare su PC e console.

 

Dead Cells
Motion Twin

 

Dead Cells è un gioiello in formato Early Access. Dove altri perdono tempo, risorse e credibilità nel fornire giochi lontani da qualsiasi forma minimamente compiuta, Motion Twin invece abbozza già un mezzo capolavoro. Strutturato secondo le regole di un “roguevania” (Metroid, Castelvania e roguelike nel DNA), Dead Cells vi invita a tentare la sorte e sfidare la morte in un gioco a scorrimento orizzontale, pieno di violenza, segreti, skills da sbloccare e limiti da superare. Ad ogni game over, difatti, ri-partirete dal principio per affrontare nuovi livelli generati e modulati proceduralmente.

L’unica continuità che vi viene concessa di partita in partita deriva dal numero di cellule raccolte, quelle stesse che figurano nel titolo. Ogni volta che il cadavere di un mostro vi lascerà dunque in gentile omaggio una cellula, qualora riusciate a raggiungere la fine del livello, avrete modo di collezionarla per raggiungere il vostro traguardo. Così facendo potrete sbloccare un singolo elemento (armi particolari, bonus attivi e passivi, slot, etc) da portarvi appresso nella partita seguente. Altrimenti non vi resterà altro da fare che digrignare i denti, evitare l’ennesimo rage quit e riprendere il joystick in mano con la bava alla bocca.

Perché Dead Cells è soprattutto un prodigio di eleganza di level design, responsività dei comandi e velocità di azione, ragionamento ed esecuzione. Un agonismo ludico fatto di sotterranei, fruste elettriche, trappole e minacce mortali. The Binding of Isaac che incontra Spelunky e lo infila in un romanzo di Michael Moorcock. Un’esperienza simil-hardcore per un giocatore qualunque che anela a sfidare se stesso. Fiondatevi sul gioco ed esulterete.

Daniele Ferriero ha provato Dead Cells su Windows.

 

Friday the 13th Killer Puzzle
Blue Wizard Digital

 

Vi ricordate Slayaway Camp? Il gioco, del 2016, era un bel puzzle con una grafica un po’ a-la Minecraft, in cui si impersonava un killer chiamato Skullface che in ogni livello deve uccidere tutti i ragazzetti presenti e scappare attraverso una buca verso il livello successivo, con la difficoltà aggiunta di potersi muovere solo orizzontalmente e verticalmente in livelli isometrici e di poter fermare la propria avanzata solo di fronte ad un ostacolo o una vittima. È più facile a giocarsi che a spiegarsi, ma la questione si faceva presto abbastanza cervellotica perché lo scaltro game design, il posizionamento dei malcapitati da uccidere e dell’uscita costringeva a fare delle scelte di movimento controintuitive per completare il livello.

I programmatori di Friday the 13th Killer Puzzle sono gli stessi di Slayaway Camp (Blue Wizard Digital, quelli di Bejeweled e Plants vs. Zombies) e il passaggio da un gioco all’altro non è stato certo la cosa più complessa del mondo: praticamente il gioco si è rifatto la veste grafica e basta. I meccanismi citati in Friday the 13th Killer Puzzle sono intatti, con due differenze: il gioco è chiaramente in combutta con il franchise di Venerdì 13 e si impersona Jason Voorhees, e anziché il finale con buca c’è un’ultima uccisione di un sopravvissuto che comporta un piccolo gioco di abilità e tempo per “centrare” l’uccisione e riempire così la propria “sete di sangue”. Con la sete di sangue si aumenta di livello: ad ogni livello si ottiene una cassa con dentro un’arma che può essere comune, non comune o rara, che non cambiano comunque il gameplay. A loro volta queste armi possono essere cedute in lotti da tre per ottenerne un’altra completamente a caso.

Il gioco è gratis, ma ha degli acquisti in app. Fortunatamente non siamo nel campo del pay to play o del pay to win, perché gli acquisti in app sono solo pacchi di armi o skin del personaggio, che non cambiano assolutamente l’esperienza di gioco ma sono solo un orpello estetico. Si gioca in modalità “Storia” attraverso 12 ambientazioni differenti (8 free to play, 4 acquistabili), dal classico campeggio, a Manhattan, all’età della pietra. Se all’inizio la difficoltà non è eccessiva, dopo il secondo scenario le cose si fanno più toste e vi capiterà di ricominciare da capo, tornare indietro, ripensarci, insomma, diventa una sfida: appaiono livelli con turni limitati, telefoni che se fatti squillare attirano i malcapitati (magari proprio dove non li volevate), gatti da NON uccidere, vie di fuga che dobbiamo chiudere, mine, interruttori della luce, poliziotti. La grafica cartoonesca mista alle tendenze splatter dopo un pochino viene a noia ma viene controbilanciata efficacemente dal sistema di sfida: quando finisci un livello particolarmente difficile impalare l’ultimo nemico con uno spunzone da kebab è abbastanza soddisfacente.

Friday the 13th Killer Puzzle è la risposta alla domanda «cosa succede se unisco ai puzzle più cervellotici lo slasher e un franchising cinematografico?», e a dispetto delle premesse è una bella risposta. Si gioca su Steam, iOS e Android.

Mattia Pianezzi ha provato Friday the 13th Killer Puzzle su Mac.

 

Horizon Chase Turbo
Aquiris

 

Il team brasiliano Aquiris, di Porto Alegre, ci offre con Horizon Chase Turbo un ritorno al gameplay arcade dei vecchi classici del racing game, e lo fa nel miglior modo possibile. Si tratta di un titolo che brilla sotto molti aspetti. Partiamo dalle modalità di gioco: il tour mondiale ci fa gareggiare su ben 109 piste sparse in diverse nazioni, sbloccando a suon di vittorie nuovi tracciati, nuove automobili e nuovi potenziamenti per le stesse; i tornei ci mettono alla prova su quattro piste per volta, mentre le gare di resistenza, come suggerisce il nome, su una quantità di tracciati (12, 36 o tutti i 109!), e in entrambi questi ultimi due casi sarà la classifica finale a determinare il vincitore. In ogni gara bisognerà inoltre fare attenzione ai vari oggetti da raccogliere: benzina, perché se si resta a secco la gara è conclusa a prescindere dalla posizione in cui ci si trova; nitro, per mettere il turbo e recuperare velocemente posizioni, perché, come impone la tradizione, non ci sono prove di qualifica e si parte sempre dall’ultima posizione, in questo caso la ventesima; e infine monete, perché un’ulteriore tipologia di sfida proposta del gioco è arrivare al primo posto dopo averle prese tutte.

Nel tour mondiale inoltre la classica ghost car ci consente di sfidare il nostro miglior tempo su ogni pista, e anche i migliori 50 tempi registrati dai giocatori in tutto il mondo: una volta concluso il tour e ottenute le macchine più veloci e che meglio si adattano al nostro stile di guida, resterà dunque la possibilità di ingaggiare un’interminabile sfida online differita con tutti gli altri possessori del gioco. I tornei sono invece la modalità perfetta per sfidare gli amici in split-screen, con lo schermo che si divide a far spazio fino a quattro giocatori.

Si vede bene come non manchino i contenuti necessari a divertirsi a lungo con Horizon Chase Turbo, ma se questo gioco è così riuscito è anche merito del comparto grafico e di quello sonoro: i paesaggi low-poly sono tutti essenziali ma capaci di cogliere e restituire i tratti tipici del paese in cui si corre, sia esso la Grecia, l’India o il Giappone; non mancano condizioni atmosferiche di ogni tipo, dato che si gareggia sotto la pioggia e la neve, in mezzo a tempeste di ghiaccio e di sabbia, e persino tra la cenere vulcanica; in alcuni tracciati si passa anche dal giorno alla notte o viceversa, e tutto questo viene reso con un uso molto azzeccato dei colori e senza che sia necessario avere chissà quale hardware a disposizione. Una menzione è infine doverosa per la colonna sonora, con brani realizzati da Barry Leitch, lo stesso compositore che ci ha già fatto sognare sulle piste di Lotus Turbo Challenge, Top Gear e Rush.

Gilles Nicoli ha provato Horizon Chase Turbo su Linux.

 

Red Strings Club
Deconstructeam

 

L’orizzonte estetico e filosofico del cyberpunk è, da anni, terreno fertile per scorribande che iniziano ad essere un po’ tutte uguali. Soprattutto nei dintorni dei prodotti AAA si tratta quasi sempre di scegliere la via delle armi e della violenza, o di tentare di cortocircuitare gli altri sabotandone i cervelli artificiali o insinuandosi nella Rete. Red Strings Club, fortunatamente, è molto diverso.

Opera di quel Deconstructeam che ha già tentato di ribaltare la norma con Gods Will Be Watching, si pone standard qualitativi e contenutistici di tutto rispetto. Nonché alquanto bizzarri rispetto al solito. Perché in Red Strings Club, di fatto, vi occuperete d’ingegneria sociale. Per rendere le cose più interessanti, quest’opera verrà curiosamente eseguita fornendo molecole ben precise ai vostri interlocutori, in una sorta di mix tra puzzle game psichico e punta e clicca sui generis.

Nel prendere le redini del barman protagonista vi troverete dunque a distillare cocktails e bevande di ogni forma, sostanza e grado al fine ultimo — e quanto mai ambiguo — di suscitare nel vostro cliente e interlocutore le risposte e le reazioni che voi desiderate. Nel vostro agire, tuttavia, si nasconde un intento parzialmente nobile: quello di indagare una presunta violazione dei diritti del cittadino in senso totalitario e contro il principio del libero arbitrio. Che poi nell’eseguire la vostra indagine, questa rivoluzione silenziosa, vi muoviate portandovi appresso tanta contraddizione è solo sintomatico della complessità che Deconstructeam ama mettere in campo.

Come già in Gods Will Be Watching, a Deconstructeam interessa stimolare il giocatore con le proprie domande e con la possibilità ultima di mettere in campo un discorso ricco di profondità e tutt’altro che univoco. Non a caso, avremo anche modo d’incontrare un’AI con la quale ragionare sulla distanza morale che separa un organismo dall’altro, una intelligenza logica e computazionale al confronto con le potenziali necessità transumaniste a venire. Come risultato, avremo modo di provare un’esperienza videoludica ricca in fascino filosofico, vertigini etiche e scrittura di livello. Con l’unico neo di sacrificare parzialmente la fase strettamente ludica in favore di quella dialogica.

Daniele Ferriero ha provato Red Strings Club su Windows.

 

Shape of the World
Hollow Tree Games

 

Avete bisogno di staccare mentalmente da tutto e da tutti. Avete bisogno di starvene in pace, anzi, perché no, di partire per la tangente, di rimanere a bagno in sogno lucido: giocate — anzi, fate esperienza di Shape of the World.

Se invece volete essere coinvolti dall’azione, da una narrazione forte, ricca e piena di immancabili colpi di scena: lasciate stare Shape of the World.

C’è solo l’ambiente circostante. Colorato e minimale, cangiante, dalle forme mutevoli: a ogni passo può scomparire un albero o un intero boschetto, spuntare un cespuglio, sorgere un crinale, formarsi una pozza d’acqua, materializzarsi uno strano essere alieno che galleggia in aria o in acque trasparenti. Il vostro avanzare in questo strano mondo determina casualmente la sua conformazione. Potete prendervi tutto il tempo che volete: non rischiate nulla. Nessun nemico, nessun cronometro a misurare la vostra performance. La strada la decidete voi. Dovete solo esplorare.

Una missione vera e propria non c’è, tranne forse una linea, a dire il vero molto flebile, che guida questa astrattissima idea di gioco: trovare all’interno di ogni singola mappa un portale di forma triangolare, che vi catapulterà nello scenario successivo. E questo è tutto.

Certo, un minimo di azione è previsto: per andare avanti — ammesso lo vogliate — bisogna interagire con delle strane e gigantesche pietre che emergono dal suolo o dall’acqua; queste pietre, o a volte monoliti dal taglio geometrico, creeranno per semplice reazione dei sentieri da seguire, scalinate sospese a mezz’aria, che vi porteranno in una fitta boscaglia da abbattere, in zone dove raccogliere strane spore e semi da poter subito ripiantare per far sorgere nuovi alberi; oppure innanzi ai già citati portali che generano il cambio di scenario.

Shape of the World è un titolo che si sistema nel solco dei giochi esperienziali; la forte componente estetica e l’assenza totale di conflitto e scopi definiti rendono questo titolo un’occasione di gioco quasi trascendentale — una sorta di opera zen immersa in ambiente flat graphic. Molto suggestiva e indicata se si è predisposti a un lento, calmo viaggio mentale — cullati fra l’altro da un più che dovuto loop di musica ambient — , ma che alla lunga, o forse anche dopo una decina di minuti, dipende da voi, potrebbe risultare già esaurita, noiosa e senza stimoli.

Stefano Felici ha provato Shape of the World su PlayStation 4.

 

Son of a Witch
Bigosaur

 

Sono un patito dei roguelike. Datemi Rogue e mi tenete incollato allo schermo per ore (e infatti custodisco gelosamente in tutti i miei dispositivi una copia di Brogue, non si sa mai); il mio conteggio di ore di The Binding of Isaac: Rebirth è a 116 (ma non tiene conto dell’originale Binding of Isaac); quando ancora non sapevo manco pronunciare “roguelike” passavo le ore su Diablo a ricreare personaggi fino ad arrivare al macellaio per poi ricominciare (sarà che avevo paura di FRESH MEAT?), ottenendo dungeon e lore sempre diversi. L’idea di provare Son of a Witch, definito dal suo sviluppatore un roguelike (ma più un roguelite in realtà) mi intrigava, ma sono rimasto un po’ deluso.

La grafica nei videogame è secondaria al gameplay, o comunque valgono di più videogame con grafica brutta e gameplay incredibile, mai il contrario; Son of a Witch ha fatto la scelta deliberata di una grafica da gioco mobile brutto, un po’ simile a Castle Crashers, che secondo la legge che unisce azione a reazione dovrebbe assicurarci un gameplay ben curato. Proseguendo in questo andazzo “provocatorio” è giusto ricordare come il videogame prima si chiamasse My Mom is a Witch, poi cambiato in Son of a Witch, ma insomma, la battutina è sempre la stessa. La goliardia grafica e di concetto di Son of a Witch non sono riuscite a catturarmi, devo ammetterlo.

Nonostante lo redima un po’ la doppia modalità di gioco, easy per i casual players, hardcore per i patiti del roguelike con generazione procedurale, purtroppo le dinamiche di gioco non sono ben studiate, improntate troppo sulla difficoltà nell’andare avanti e sul permadeath usato come feature nominale banale piuttosto che sulla ricchezza e varietà nel gameplay. Tra gli esempi: il randellamento fisico dei nemici è basico, del tipo “mena a tempo=meni per sempre” perché il colpo del proprio avatar interrompe la preparazione al colpo dell’avversario; i boss sono sempre enormi mostri e nella loro schermata c’è una casa (che a seconda del boss può essere una capanna, un igloo, una caserma, ecc.) da cui spuntano sgherri; le armi sono sbilanciate a favore di quelle a distanza e/o di quelle magiche. La musica e la storia sono banali (ok, non è richiesta troppa storia nei roguelike hardcore, ma almeno provaci); in compenso la funzione di cooperazione a 4 è carina (qualcuno ha detto Gauntlet?), ci sono sfide giornaliere da affrontare aggiornate online e se si vuole passare qualche ora ad uccidere orchi spensierati non è male.

Mattia Pianezzi ha provato Son of a Witch su Mac.

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Rassegna videoludica di luglio

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Ogni mese i redattori di Ludica ci parlano dei migliori videogiochi che hanno avuto modo di provare su PC e console.

 

Cultist Simulator
Weather Factory

 

Con le carte e i mazzi si possono realizzare giochi di ogni tipo: basti pensare al poker, alla briscola, alle carte di Uno, a quelle collezionabili di Magic: The Gathering, a quelle virtuali di Hearthstone (e presto di Artifact, nuovo titolo di Valve). Ma la nuova creazione di Alexis Kenney, già autore di Fallen London e Sunless Sea, si spinge oltre, e propone un sistema di gioco atto a simulare una vita: quella di un uomo degli anni ‘20, incline all’esoterismo, che vuole fondare un nuovo culto. L’oscurità dell’intento si riflette in una completa mancanza di istruzioni: «Explore. Take risks. You won’t always know what to do next. Keep experimenting, and you’ll master it», ci avvisa subito la schermata introduttiva. Il giocatore dovrà imparare tutto da solo quindi, e presto scoprirà la profondità di Cultist Simulator e l’ampia varietà di azioni a sua disposizione. Le carte vanno giocate all’interno di alcuni verbi: “Work”, “Dream”, “Study”, “Explore”, e diversi altri che si rendono man mano disponibili. Facciamo qualche esempio: giocare una carta “Reason” nel verbo “Work” ci consentirà di trovare un lavoro migliore; giocare una carta “Passion” nel verbo “Work” invece ci farà dedicare alla pittura, ricavando “Contentment”. A sua volta una carta come la “Contentment” è utile a placare i propri demoni interiori e a ridurre la paura e altre afflizioni fisiche e mentali che possono portarci alla morte con sorprendente rapidità. Avanzando nel gioco si potrà fondare il proprio culto, accumulare seguaci, rivaleggiare con culti rivali, evocare forze soprannaturali, sempre seguendo sempre questo schema base, ma le cose naturalmente non tardano a complicarsi, e molte azioni richiedono combinazioni di carte diverse. Cultist Simulator è un titolo di grande fascino, e impressiona davvero come un brillante lavoro di game design faccia emergere una narrazione ricca e complessa dal semplice crafting di nuove carte. Ma è anche vero che pochi giochi sono “non per tutti” quanto questo, perché, nonostante gli abbondanti indizi sparsi un po’ ovunque, è tutt’altro che immediato capire quali siano i meccanismi e le regole di Cultist Simulator. Servirà molta voglia, molta applicazione, o ci si ritroverà a lungo di fronte al gioco senza sapere come giocarlo.

Gilles Nicoli ha provato Cultist Simulator su Linux.

 

Epic Loon
Macrales Studio

 

Cosa fareste qualora la vostra benemerita collezione di VHS, costruita con ardore maniacale e curatela filologica degna di un non più giovane con gravi problemi di obesità e scarsa igiene personale – quale voi siete – , questa collezione, dicevamo, venisse brutalmente invasa da parassiti extraterrestri pronti a rovinare i vostri film preferiti? Non lo sapremo mai. Perché, in questo pregevolissimo e ameno platform multigiocatore, noialtri vestiremo i panni dei simpatici alieni, pronti a rovinare la festa all’odioso proprietario con gravi carenze sociali. Nel gioco, che altro non è se non un party game da saggiare beatamente sdraiati sul divano, il nostro scopo sarà quello di arrivare alla fine di ogni livello prima degli altri tre giocatori, che siano umani o simulati. Tentando, nel frattempo, di sfuggire gli interventi guastatori dell’antipatico umano. A fare la differenza rispetto a prodotti della stessa tipologia sono le meccaniche di gioco e gli ambienti all’interno dei quali ci muoveremo. Le prime prevedono una forma particolare di salto a farla da padrone: l’alieno, per muoversi compiutamente, si trasforma difatti in una sorta di pendolo vivente che si catapulta da una parte all’altra della sua traiettoria, dando vita a una modalità particolarmente divertente, goffa e perfetta per darsi noia vicendevolmente. Gli schermi da completare, invece, sono veri e propri frame rivisitati dei film che andremo a infestare (e che non vi spoileremo). Pellicole di genere, dall’horror alla fantascienza e via dicendo, all’interno delle quali salteremo tra titoli di coda, oggetti, protagonisti, elementi di scena e via di questo passo. In particolare, questi frame, sono ridisegnati con uno stile unico dai toni in bianco e nero: visivamente gratificante, personalissimo, appagante e in linea con l’atmosfera del gioco. Ad ogni modo, la compresenza di due varianti denominate “Story” e “Battle” mette in luce tutti i pregi e i difetti di Epic Loon: tra qualche meccanica che sarebbe stata da limare (il sistema di handicap inflitti) e gli elementi di contorno che diventano parte integrante del gioco (nella “Story mode” ripercorriamo la storia dei film, con tanto di stralci di dialoghi, commenti e interventi ultra nerd). Il risultato dice di un gioco dove non tutto è perfetto, ma il cui fascino porta presto alla dipendenza. Soprattutto se accompagnati da altri giocatori umani.

Daniele Ferriero ha provato Epic Loon su Windows.

 

Machiavillain
Wild Factor

 

Scopri Machiavillain e pensi, soprattutto se hai amato tantissimo titoli come Dungeon Keeper, che possa diventare uno dei tuoi giochi preferiti di sempre: proprio come il capolavoro di Peter Molyneux del 1997, qui le premesse di tante avventure videoludiche (e cinematografiche) vengono ribaltate, e al giocatore tocca impersonare le forze del male. Machiavillain ci consente infatti di costruire una casa degli orrori, popolarla di mostri, riempirla di trappole, e invitare tante vittime innocenti e inconsapevoli a fare una brutta, bruttissima fine. I meccanismi di gioco provengono tutti dalla tradizione manageriale e simulativa: raccogliere risorse, progettare i vari spazi, reclutare nuovi mostri (abbiamo a disposizione vampiri, mummie, psicopatici, ognuno con le sue caratteristiche), assegnare loro diversi compiti, e sotto questi profili Machiavillain somiglia a titoli come Prison Architect e Rimworld. Alcuni degli aspetti simulativi sono abbastanza realistici: i nostri visitatori si spaventano se una stanza è buia, e scappano a gambe levate se trovano tracce di sangue dei nostri ospiti precedenti. Altre regole invece sono prettamente stilistiche, e si riferiscono al cinema: la nostra casa degli orrori guadagnerà una più alta reputazione se elimineremo i nostri ospiti secondo i cliché dei film horror, ad esempio eliminando i nostri ospiti solo dopo che si sono separati e si trovano da soli. Di citazioni e strizzatine d’occhio Machiavillain è pieno, e questo sarebbe un altro punto a suo favore. Ma il gioco ha un problema molto grave: è poco divertente, a causa di due difetti che impediscono di godersi l’esperienza di gioco che avevano in mente gli sviluppatori. Il primo riguarda l’interfaccia: non è eccessivamente disordinata ma è macchinosa, ciò che si cerca si trova sempre a distanza di uno o due click in più rispetto a quanto sembrerebbe necessario, e questo, unito alla mancanza di un tutorial completo e al conseguente spaesamento iniziale del giocatore, rende soprattutto le prime partite estremamente faticose; ma anche una volta passate più ore sul gioco resta un senso di incompiutezza e di confusione che rende difficile l’immersione. Insomma, l’interfaccia in Machiavillain è un ostacolo che separa gioco e giocatore. Ma un difetto ancora più grave è il ritmo: il gioco è pieno di momenti morti ed è davvero troppo lento. L’aspetto più frustrante è forse proprio la sensazione di intravedere sempre un divertimento che il gioco stesso rende fondamentalmente inaccessibile.

Gilles Nicoli ha provato Machiavillain su Linux.

 

Minit
JW, Kitty, Jukio, Dom

 

Minit è la soglia minima che si riduce fino a scomparire. Se pensate che un gioco abbia senso di esistere solo al di sopra di una certa quantità di tempo da spenderci assieme, questo rompicapo ludico è qui per farvi cambiare idea. Attraverso un cortocircuito di senso. Pubblicato ad aprile da Devolver Digital e sviluppato da un pugno d’irriducibili sviluppatori indipendenti – una specie di who’s who della scena, a dirla tutta – , Minit, a prima vista, potrebbe farvi aggrottare la fronte pieni di dubbio. In bianco e nero, profondamente retro nella forma e nei modi, ha l’aspetto d’un prodotto fatto scofanare apposta a tutti quei giocatori insaziabili che amano perdersi nelle nostalgie retromani e nelle nebbie del tempo. La sostanza, per fortuna, è del tutto diversa. Perché in Minit la critica teoretica (cioè i ragionamenti intorno ai modi, alle forme e alla teoria del videogioco) si associa alla critica pratica, manifestandosi a fondo nell’eccelso gameplay. Come? Maledicendovi, letteralmente, in un curioso e speculare parallelismo con quella perla nera intitolata Pony Island. In Minit tuttavia sarà il tempo a vostra disposizione a farsi il fulcro del gioco e del discorso. Ogni sessanta secondi, difatti, morirete; a prescindere dalle vostre azioni e dalle scelte sin lì compiute. Dunque, un minuto sarà quanto avrete a disposizione per andare avanti, per indagare, combattere e capire in che guaio siete finiti. O soprattutto come uscirne. Non a caso, dietro l’apparenza di uno Zelda-like (oltre all’ascendenza ideale), Minit si rivela in fretta molto più simile ad un adventure/puzzle game fatto e finito. Gli scontri infatti costituiscono una parte tutto sommato secondaria del gioco, mentre la sostanza sta nella risoluzione degli enigmi. I quali, pur non essendo impossibili o improbabili, sono congegnati a dovere e con intelligenza pratica e ludica. E implicano spesso un uso della materia grigia, della ricerca e soprattutto dell’intuizione superiori alla desolante media odierna. Niente d’impossibile, ma tutto molto piacevole. In ultimo, l’estetica che in un primo momento sembrava così gratuita, si rivela come il coronamento dell’eccellenza che è questo gioco. Un attestato di coerenza. Per un divertentissimo e radicale ragionamento minimalista sulle limitazioni dello spazio-tempo, dei gameplay e sulla natura di quanto amiamo chiamare “videogioco”. Ché, in fondo, ogni istante è importante. Anche fuori dagli schermi.

Daniele Ferriero ha provato Minit su Windows.

 

Moonlighter
Digital Sun

 

Gig economy, mini-job, “carriere flessibili”: le nuove forme di lavoro post-crisi ci vengono presentate con una terminologia tanto accattivante quanto poco trasparente. L’inglese “moonlighting” usa quanto meno una sfumatura più poetica per nascondere una realtà poco desiderabile: è usato per indicare la situazione di chi, per stare a galla, è costretto a fare un secondo lavoro, spesso in orari notturni (da cui il “chiaro di luna” incluso nel termine). Moonlighter – prima fatica, finanziata tramite Kickstarter, dello studio indie Digital Sun – prende questo concetto alla lettera e lo trasforma in gameplay: impersoneremo Will, un abitante della città fantasy di Rynoka che di giorno gestisce un negozio dove vende cimeli e risorse accumulate durante le sue esplorazioni notturne nei dungeon attorno all’insediamento. Primo impiego: gestionale; si richiede esperienza nell’amministrare i prezzi delle merci per mantenere soddisfatta la clientela e avere buoni margini di guadagno, far crescere l’attività e tenere alla larga i taccheggiatori. Familiarità con crafting dell’inventario e city planning (non pretenderete mica di essere l’unico negozio in città, vero? Il mercato ha bisogno di concorrenza, e del resto dovrete pur comprare armi e pozioni da qualche parte). Secondo impiego: rogue-like; ben accetta esperienza con action-rpg e dungeon generati proceduralmente, stracolmi di creature capaci di spaccarci il cranio in un paio di colpi – fondamentali riflessi pronti e pazienza (utile, ma non indispensabile, avere Binding Of Isaac o simili nel CV). I benefit includono un accattivante art style cartoonesco (personaggini e mostriciattoli simpatici e pixelati, discretamente fantasiosi; tendaggi che si muovono al vento, a significare l’idea di abbandono e mistero) e una discreta capacità di assuefare il giocatore sgamato. Si astenga chi desidera una trama complessa (la lore è minimale e trafficata tramite le descrizioni degli oggetti, frammenti di diari nei dungeon e brevi dialoghi con gli NPC) o un’esperienza molto profonda: come nella realtà, il moonlighter difficilmente amerà entrambi i lavori allo stesso modo, e sarà presto alienato dalla ripetitività che finisce inevitabilmente per segnare entrambe le attività. Gli mancherà forse la coesione che un solo lavoro, svolto con più tempo e dedizione, gli avrebbe garantito. Si raccomanda comunque una candidatura da parte di chi è interessato a osservare un interessante esperimento di gameplay “bifronte”; uscirà presto una versione Switch, e il gioco – coi suoi ritmi spezzati e la brevità delle singole fasi in dungeon e città – potrebbe costituire un perfetto passatempo portatile.

Giorgio Chiappa ha provato Moonlighter su PlayStation 4.

 

Radiis
Urban Goose Games

 

Riuscite a immaginare un gioco di strategia a turni in cui non ci sono unità da muovere? Lo ha fatto lo studio canadese Urban Goose Games, proponendo in un titolo molto interessante come Radiis che, fedele all’idea che imporsi delle limitazioni stimoli la creatività, propone esattamente un gameplay di questo tipo. Il gioco offre campi di battaglia divisi in tanti esagoni simili a quelli di Civilization, che si differenziano tra loro per altezza (le posizioni più elevate hanno importanza strategica ma forniscono poche risorse) e per tipologia (maggiori risorse arrivano da foreste, prati e zone fertili; molto poveri invece i terreni rocciosi, desertici o innevati). Espandersi su queste mappe significa costruire delle fortificazioni, abbattere quelle nemiche, esercitare un’influenza sulle zone circostanti, conquistando nuove caselle senza “muovere” mai. Sorprende quanto dinamiche possano essere le partite in un gioco apparentemente così statico. Merito delle costruzioni a disposizione che non sono moltissime ma sono ben diversificate e soprattutto ben bilanciate tra loro: alcune servono più ad offendere, altre per difendere, altre ancora aiutano a sottrarre caselle agli avversari, e ognuna ha un diverso raggio di azione. Merito anche della gestione delle risorse necessarie a costruire, che incentivano una rapida partenza alla conquista delle caselle libere e premiano la distruzione delle strutture avversarie dandoci punti necessari a costruire facilmente anche le fortificazioni più costose, che sono poi quelle cruciali per la vittoria: grazie a questo meccanismo è sempre più importante la mossa successiva rispetto alle posizioni acquisite. L’interfaccia ci tiene inoltre costantemente aggiornati sulla quantità di risorse a disposizione di ogni fazione e sulla percentuale di mappa controllata. La conquista di un certo numero di caselle è la condizione di vittoria. Se la campagna di Radiis fornisce un buon numero di scenari, introducendo gradualmente i vari elementi di gioco e fornendo un buon livello di sfida (soprattutto nelle modalità più difficili, che concedono all’IA un moltiplicatore di risorse), l’editor di mappe e l’integrazione con lo Steam Workshop promettono di dare una considerevole longevità al gioco.

Gilles Nicoli ha provato Radiis su Linux.

 

The Swords of Ditto
onebitbeyond

 

The Swords of Ditto è la sagra del videogioco sotto l’egida di Cartoon Network. Un vero e proprio sogno ad occhi aperti per chiunque ami o abbia amato l’estetica di Adventure Time, Steven Universe, Gravity Falls, Over the Garden Wall, Rick & Morty, Regular Show e via di questo passo. Ovverosia ciò che è stato prodotto da un universo di illustratori, disegnatori e creativi indipendenti e un po’ squinternati che si sono trovati a illustrare cartoon e show per bambini (ma non solo…), per guastarne irrimediabilmente le menti a furia di ilarità demenziale e psichedelia colorata. Di quel patrimonio, The Swords of Ditto si è nutrito a dovere e ha fatto tesoro, rilanciandolo però in una versione tutto sommato innocua, coccolosa, colorata e adatta ai più piccoli: deliziosa nelle forme e nel risultato, quasi perfetta nella resa puramente visiva. La storia, invece, è in fondo quasi un pretesto, e prevede che il protagonista sia un classico ed archetipico eroe che viene scelto per combattere il male manifestatosi a più riprese nel corso dei secoli. La struttura del gioco, difatti, prevede sì che passiate le vostre giornate virtuali a combattere mostri a destra e a manca, recuperare magici, irresistibili, artefatti (un vinile roteante, tanto per spoilerarne uno) e migliorare le vostre probabilità di successo all’aumentare del livello e/o usufruendo dell’ausilio di adesivi speciali da appiccicare sopra le vostre armi ed armature. Però, al termine di questa particolare preparazione atletica (che prevede anche un buon numero di dungeon, scoperte accessorie, scorciatoie, sorprese esoteriche a vario titolo), verrete letteralmente costretti a sfidare il male in persona, Mormo, entro un tempo dato. In maniera del tutto bizzarra, vi troverete in una dinamica simile, benché più user friendly e convenzionale, rispetto a Minit. Dove lì s’incontra inopinatamente la morte, qui si affronta per forze di cose il Male assoluto. Che riusciate o meno nel vostro intento, poi, l’amara sorpresa: al prossimo ciclo vestirete i panni del nuovo eroe e vi troverete nuovamente a combattere, seppure in un mondo lievemente diverso e generato proceduralmente. E per l’ennesima volta sarete costretti ad affrontare forzatamente Mormo, che ne usciate vinti o vincitori. Proprio come nell’eterno viaggio dell’Eroe, che appartenga a Michael Moorcock o a Joseph Campbell. Tutto inutile, dunque? Non proprio… ma il come e il perché, o come uscirne, lasciamo che siate voi a scoprirli. Basti dire che vi troverete sempre alle prese con uno pseudo dungeon-crawler costituito da elementi simil roguelike e una struttura di gioco dall’impianto ciclico, se non proprio eterno. Il gioco, che supporta il coop, è piacevolissimo. Purtroppo, però, soffre di diversi squilibri e scelte di gameplay non sempre condivisibili o persino comprensibili. La sensazione è che gli sviluppatori stiano ancora calibrando in parte le potenzialità dell’universo di Ditto, nonostante non si sia più in Early Access. Non è peraltro improbabile che derivi proprio dal rush finale in occasione della pubblicazione. Non una giustificazione, ma la speranza che le potenzialità del gioco vengano presto espresse a dovere.

Daniele Ferriero ha provato The Swords of Ditto su Windows.

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Rassegna videoludica di agosto

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Ogni mese i redattori di Ludica ci parlano dei migliori videogiochi che hanno avuto modo di provare su PC e console.

 

Beholder
Warm Lamp Games

 

Vi trovate in un oscuro, ucronico e irrimediabilmente orwelliano 1984, dove un governo dal pugno durissimo tiene sotto scacco la libertà di ogni cittadino. «Many citizens still thinks their private life is their own business» sono le programmatiche parole di Mario Hempf, Ministro degli Alloggiamenti e vostro punto di riferimento per quel che è il vostro ingrato lavoro. Impersonerete Carl Stein, novello amministratore di un tetro condominio in cui ogni inquilino sarà perennemente sorvegliato – e proprio da voi: ventiquattro ore su ventiquattro, e con ogni mezzo: telecamere installate negli appartamenti, incursioni furtive, occhiate nascoste attraverso gli spioncini.

In Beholder – Complete Edition lo scopo del gioco è infatti quello di barcamenarsi tra la gestione del condominio (riparazioni, affitti e controllo della buona condotta dei residenti), esecuzione dei crudelissimi ordini del Governo (spesso si tratterà di incastrare qualche abitante del condominio e di raccogliere le le prove per mandarlo in galera) e, ultima ma non meno importante, l’armonia della vostra famiglia, composta, oltre a Carl, da sua moglie Anna e dai figli Patrick e Martha. Il gioco si pone all’incrocio tra un gestionale e un’avventura punta-e-clicca: come detto, dovrete tenere sotto controllo i bilanci del condominio e tener conto di chi ci abita; per portare a compimento le quest, dovrete invece percorrere in lungo e in largo l’edificio, scandagliare gli appartamenti, rovistare tra armadi, sedie e tavolini, grazie ai classici menù dall’immancabile lente d’ingrandimento. Altra componente importante del gioco è quella da GdR: saranno molto importanti i dialoghi e le interazioni con gli altri inquilini, al fine di cogliere indizi sulle quest in atto e sbloccare nuovi compiti che potranno servire per guadagnare soldi extra o “punti stima” – parametro essenziale per far sì che sia il Governo, sia gli abitanti del condominio, rispondano in modo positivo alle vostre richieste, allontanando scenari che, senza spoilerare nulla, coinciderebbero con quello che comunemente si potrebbe chiamare Game Over.

Per quanto riguarda l’aspetto grafico, le indicazioni iniziali (quelle su un’oscura, orwelliana ucronia) sono messe in risalto da una grafica che usa pochissimi colori, quasi fosse tuto in scala di grigio; anche i personaggi sono in pratica delle ombre nere, che scivolano lungo un’asse orizzontale (la visuale è quella frontale, un 2.5D che permette delle brevi escursioni in profondità); l’unica licenza usata per la loro caratterizzazione, oltre ai dialoghi e ai borbottii senza significato (alla The Sims, per intenderci), sono gli occhi, bianchi, che assumono varie forme a seconda degli stati d’animo, e i dettagli unici, come per esempio il mazzo di chiavi passepartout legato in vita che adorna la silhouette di Carl. Dopo la panoramica iniziale non serve molto altro per immergersi nel gameplay: all’inizio potrà in effetti sembrare lineare, con la dinamica assegnazione del compito-risoluzione che tende a proporsi facilmente nella prima ora di gioco, ma ci si accorgerà subito che ogni compito, man mano, potrà esser svolto in maniera diversa, applicando una scelta che porterà il gioco in direzioni opposte, dando vita a ramificazioni interessanti – quindi, una rigiocabilità assicurata. Un consiglio? Anche se svolgete alla lettera i compiti assegnati dal Governo, fate attenzione a come potrebbero reagire le altre persone del condominio. Eviterete brutte sorprese. Ah, e un’altra cosa: non trascurate la famiglia. Vive su equilibri molto delicati.

Stefano Felici ha provato Beholder su PlayStation 4.

 

Black Paradox
(Fantastico Studio)

 

Black Paradox è uno shoot’em up a scorrimento orizzontale sviluppato dal team italiano di Fantastico Studio. È ambientato nello spazio (scuola R-Type) con elementi da bullet hell, ovvero in cui si diventa pazzi a schivare proiettili degli sgherri che sparano prima di arrivare ai boss di fine livello, sette in tutto. La nostra astronave (una Delorean) non esplode al primo colpo preso ma la sua armatura ha la sua barra di energia; colpendo i nemici si carica il potere del “black paradox”, ovvero l’apparizione di un’ astronave da un’altra dimensione che ci da manforte; l’astronave può essere migliorata attraverso l’acquisto di chip (ne può montare fino a quattro) che migliorano attacco, energia, o danno bonus vari (possibilità di sparare missili, schivare, o di sparare all’indietro) con i soldi ottenuti dalle taglie dei supercattivi o dei nemici semplici.

Rifacendosi a tutta una schiera di titoli arcade traslati nel 2018, Black Paradox non delude sotto dei punti fondamentali: la giocabilità è molto alta, i comandi precisi e semplici, la grafica è sofisticata ma senza che appaia ipermoderna, il sistema di gioco è semplicissimo con una storia ridotta all’osso e mille mila astronavi nemiche da colpire. Inoltre ci sono delle chicche da retrogamers come il finto giapponese del nome dei cattivi e delle armi che si incontrano che ricorda cose tipo “evimascingah” di Metal Slug. Il richiamo agli anni ’80 è forte (forse troppo: comandiamo una Delorean con una colonna sonora synthwave e grafiche a colori neon o da vhs) ma l’aumento delle statistiche e abilità sono declinate in chiave moderna. Avete presente il sistema di livellaggio di Rogue Legacy? Devi morire tot volte per avere degli upgrade necessari a smettere di morire come un cretino nelle prime stanze; in Rogue Legacy questo sistema, per sé pure frustrante, è mascherato dal sistema delle eredità, dei figli, e dal mondo di gioco che si ricrea sempre simile a sé stesso ma sempre diverso.

In Black Paradox il sistema è simile: non aspettatevi di vincere esclusivamente grazie alle vostre abilità dalla prima volta che giocate, ma c’è un sacco di grinding da fare per ottenere chip più potenti e per arrivare più in fondo. Questo allunga la giocabilità di tantissimo ma rischia di annacquare l’esperienza di gioco; fortunatamente i livelli sono sempre diversi, quindi ogni volta che si ricomincia è una sfida diversa e può capitare di morire anche se ben equipaggiati già nei primi minuti di gioco. Nonostante questo elemento roguelike manca qualcosina per poterlo accostare a quest’etichetta (forse una certa sistematicità dei livelli o un sistema di potenziamenti un po’ più profondo), e forse c’è da applicare qualche bilanciamento che renda l’esperienza meno competitiva ma allo stesso tempo un pelino meno frustrante (quella dello sforzo/risultati è una linea sottilissima e i ragazzi di Fantastico Studio l’hanno quasi azzeccata) ma Black Paradox resta un ottimo gioco se siete appassionati del genere, e un buon gioco se non lo siete.

Mattia Pianezzi ha provato Black Paradox su Mac.

 

Deiland
Chibig

 

La prima cosa che salta in mente giocando a Deiland, sviluppato con l’aiuto di una campagna Kickstarter dalla spagnola Chibig, è “Il piccolo principe”. Il nostro protagonista si chiama Arco, indossa mantello e abiti regali e vive da solo su un pianetino che si può percorrere in meno di un minuto. Proprio come il libro di Antoine de Saint-Exupery, l’immaginario di Deiland punta sulla poetica delle piccole cose: Arco sviluppa presto un legame di simbiosi col suo pianeta, nel quale troviamo laghi, alberi, rocce e una misteriosa costruzione.

La meccanica è quella del sandbox, ormai nota agli appassionati, ma visti gli spazi limitati la troviamo svuotata dal suo aspetto esplorativo: una quest dopo l’altra Arco dovrà costruire case, strutture e utensili, coltivare i campi, preparare il cibo, difendersi dai meteoriti e da minuscoli alieni. Il ciclo è ripetitivo per chi conosce il genere, ma c’è una buona varietà di opzioni e i dialoghi coi personaggi secondari arricchiscono l’esperienza: si tratta di mercanti ed esploratori da cui apprendere poco per volta dettagli sulla natura di Arco e del pianeta, al quale anche noi finiamo presto con l’affezionarci.

Se il design minimale è sicuramente l’aspetto più riuscito e caratteristico di Deiland, con un’idea grafica ben realizzata, dal punto di vista narrativo il gioco non sembra esprimere il proprio potenziale. La seconda metà di Deiland, quella più affine al gioco di ruolo, dà l’impressione di concludersi troppo presto lasciandoci il desiderio di scoprire qualcosa di più sui “pianeti minori” – perché il nostro non sarà l’unico – e sui loro abitanti. La casa produttrice si rivolge a un pubblico molto giovane a cui Deiland può offrire un’ottima introduzione al mondo dei sandbox; un’esperienza piacevole anche per il giocatore più esperto, e particolarmente gradevole per gli occhi, a patto di sopportare un ritmo che si muove sicuro sui binari del semina-raccogli-costruisci con poco approfondimento per gli spunti offerti dalla trama.

Andrea Cassini ha provato Deiland su Playstation 4.

 

Slay The Spire
Mega Crit Games

 

Ancora in Early Access su Steam ma già piuttosto completo, Slay The Spire è un originale incontro tra giochi di carte e roguelike. Il giocatore deve affrontare tre dungeon dalla struttura casuale, tutti pieni, come da tradizione, di nemici più e meno ostici da affrontare, di tesori da scoprire, di negozi in cui modificare il proprio equipaggiamento composto da carte, oggetti e pozioni, e di incognite che possono comportare bonus o malus di varia natura. Si parte con un personaggio, l’Ironclad, ma presto se ne avranno a disposizione altri due: la Silent e il Defect. Ogni personaggio ha un set di carte personale, e questo vuol dire che Slay The Spire può essere affrontato in tanti modi diversi.

Il bilanciamento è diverso per ogni personaggio, perché l’Ironclad è votato soprattutto all’attacco, la Silent alla difesa, e il Defect a quello che in Magic: The Gathering si definirebbe il controllo. Ogni set è composto da carte offensive, altre difensive, e poi da poteri e abilità, tutte capaci non solo di sviluppare interessanti sinergie tra loro, ma anche con le pozioni e gli oggetti a disposizione. I combattimenti sono a turni, e una volta sconfitto il nemico si ottengono, ma non sono obbligatorie, una nuova carta a scelta, una pozione e una quantità d’oro da spendere nei negozi. Espandere il proprio mazzo non è sempre una buona scelta, perché avere molte carte significa anche pescare meno di frequente le migliori e avere più raramente una mano che permetta combinazioni efficaci. Con più di 200 carte in totale, è davvero difficile che Slay The Spire possa risultare ripetitivo.


Gli sviluppatori, che continuano ad aggiornare il gioco con cadenza settimanale, sono riusciti a trovare il giusto punto d’incontro tra le due componenti del gioco; il deck building perfetto è impossibile da conseguire e viene mortificato dalla casualità tipica dei roguelike, che esalta però la capacità del giocatore di partire con un piano e aggiustare poi la propria strategia in base a quello che riuscirà a trovare nel corso della partita. Slay The Spire è il tipico titolo che diventa sempre più divertente man mano che si prende confidenza con le meccaniche di gioco: che si riesca a vincere, sbloccando un nuovo livello di difficoltà, o che si sia costretti a ricominciare da capo sperando di avere sia le intuizioni giuste che quel pizzico di fortuna sempre necessario, il passo successivo sarà comunque il medesimo: pensare già alla prossima partita.

Gilles Nicoli ha provato Slay The Spire su Linux.

 

Train Valley 2
Flazm Interactive Entertainment

 

Anche se il tema ferroviario è tradizionalmente legato al genere gestionale, e lo è sin dai tempi del primo Railroad Tycoon di Sid Meier, lo studio lituano che ha sviluppato Train Valley lo ha usato per creare un puzzle game tanto semplice quanto ben congegnato: in ogni livello ci sono alcune stazioni già date, e al giocatore spetta il compito di costruire i binari, far partire i treni e gestire gli scambi in modo che i convogli ferroviari non si scontrino tra loro e arrivino sempre alla giusta destinazione. Train Valley 2 riprende quasi tutto dal gioco precedente, ma ne rifinisce alcuni aspetti: la novità principale è che treni e stazioni non sono più distinti da colori diversi ma da specifiche produzioni. Dunque non bisognerà più portare il treno blu dalla stazione rossa alla stazione blu, ma si faranno partire ad esempio lavoratori dalle città verso fabbriche di gomme, e poi carichi di gomme verso fabbriche di automobili, e così via.

Una delle migliori scelte di design riguarda la gestione della difficoltà: i livelli non sono mai troppo complicati da risolvere e ci si può godere il gioco e la sua grafica colorata con rilassatezza; una serie di cinque obiettivi supplementari, necessari a ottenere cinque stelle, va però a complicare le cose, richiedendo ad esempio di non far mai scontrare i treni, di non farne mai arrivare uno nella stazione sbagliata, e di completare il livello entro una certa quantità di tempo. Rispettare le cinque condizioni contemporaneamente cambia del tutto il gameplay e alza di molto il livello di sfida, e in un mondo ludicamente più maturo e avanzato ottenere cinque stelle in tutti i livelli di Train Valley 2 andrebbe messo in bella evidenza sul proprio curriculum vitae.

Nonostante sia ancora in Early Access su Steam, e dunque tutt’altro che completo (al momento ci sono 20 livelli sui 50 previsti, 4 locomotive su 18, 21 tipi di vagoni su 35), Train Valley 2 sembra già il gioco che il suo predecessore sarebbe dovuto essere. L’attuale scarsità di contenuti è in parte compensata grazie all’editor di livelli e all’integrazione con lo Steam Workshop: la community ha già creato quasi duecento nuovi scenari, alcuni dei quali in grado di rivaleggiare con quelli presenti nel gioco (provare Gridlock per credere).

Gilles Nicoli ha provato Train Valley 2 su Linux.

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Rassegna videoludica di settembre

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Ogni mese i redattori di Ludica ci parlano dei migliori videogiochi che hanno avuto modo di provare su PC e console.

 

Akane
Ludic Studio

Akane inizia con la resa dei conti. Il tutorial, ambientato nel 2098, ci insegna tutte le mosse necessarie per combattere. Il gioco vero e proprio, l’anno questa volta è il 2121, vede la protagonista, nell’arena di una futuristica Mega Tokyo, pronta a morire solo dopo aver a sua volta ucciso quanti più nemici possibile, tutti appartenenti alla mafia giapponese. Nel frattempo, cosa sarà successo? Quali eventi avranno portato a questo drammatico finale? Una storia, è evidente, ci deve essere, ma è rimossa dal gioco: resta materiale a disposizione per l’immaginazione del giocatore, o per il futuro eventuale sequel di un piccolo e violento titolo arcade slasher in pixel art che può diventare di culto.

Il concept del gioco è inizialmente nato alla game jam Ludum Dare 39 intorno alla fusione di due temi: samurai e cyberpunk. Successivamente è stato sviluppato in direzione della forma attuale in occasione del Neon Challenge promosso da Unity. Inutile dire quanto l’illuminazione (per chi sia interessato agli aspetti più tecnici, c’è un bel post a riguardo del team brasiliano di sviluppatori) contribuisca a creare l’atmosfera di Akane, alla quale contribuisce anche la potente colonna sonora di Cybass, che ricorda quella di Hotline Miami. L’arena, unico vero ambiente del gioco, è dunque piena di scritte al neon, droni, grandi schermi pubblicitari luminosi, oggetti in fiamme, suggerendo una società violenta e decadente che rimanda direttamente a Blade Runner o a certi scenari apocalittici di John Carpenter. Ma i riferimenti cinematografici si estendono a Kill Bill o ai film di Akira Kurosawa in cui il personaggio principale si trova a dover affrontare una schiacciante quantità di avversari.

Le regole sono semplici: basta subire un colpo per essere uccisi, basta (quasi) sempre un colpo per eliminare un nemico. Si inizia con una spada, una pistola e alcune mosse speciali, ma raggiungendo determinati obiettivi sarà possibile arricchire il nostro letale equipaggiamento. Il principale difetto di Akane al momento è il sistema dei comandi: si può giocare solamente con la tastiera e la disposizione predefinita non sembra la più comoda per eseguire ogni azione con la precisione e il tempismo necessari, nonostante il combattimento sia comunque molto fluido e la risposta ai comandi sempre veloce e impeccabile; inoltre non c’è alcuna opzione per modificare l’assegnazione dei tasti. Gli sviluppatori sono però al lavoro sul supporto per i controller, e questo potrebbe presto migliorare la situazione. Considerato anche il pezzo (3.29€), un giro è più che consigliato.

Gilles Nicoli ha provato Akane su Linux.

 

Football, Tactics & Glory
Croteam

Parlare Football Tactics & Glory non è facile. A un appassionato di giochi di ruolo lo descriverei come un mash up tra Fifa e XCOM, una definizione che non va bene per chi segue il calcio e concepisce i videogiochi come un’appendice della sua passione sportiva. A quest’ultimi direi: «Immaginate il campo da gioco come una scacchiera e i calciatori come i pezzi da muovere nelle caselle. Non avete a disposizione una mossa, ma tre. Correre o tirare sono appunto azioni e più i vostri giocatori sono forti, più le probabilità di successo di ciascuna azione aumentano». Il bello di Football T&G è che unisce due meccaniche di gioco molto distanti, che tendenzialmente si portano dietro due tipologie umane differenti. E cosa hanno in comune l’appassionato di giochi carta e penna e un ultras che passa le sue domeniche in curva sud? L’immagine non tiene conto delle sfumature intermedie, ma restituisce il mio imbarazzo nel trovarmi ancora una volta catapultato in queste maledette nicchie di internet e di mercato.

In Football T&G ogni giocatore ha un punteggio che determina la sua capacità di tirare, passare, difendere e controllare la palla, proprio come in Skyrim un numero influisce sulla capacità dei personaggi di evocare magie o di resistere ai colpi. Il parallelo con i giochi di ruolo resta valido nel caso delle abilità speciali, da sbloccare man mano che i giocatori salgono di livello, grazie all’esperienza che accumulano in campo. Tali abilità consistono in passaggi lunghi o filtranti, tiri più potenti o scivolate. I talenti, o specializzazioni invece operano fuori dal campo (un campione attira più spettatori), o nel campo ma in modo passivo (i difensori intercettano la palla durante il turno dell’avversario).

C’è poi un’altra componente di gameplay, che regola le partite di calcio vere e proprie. Il campo si trasforma in una griglia sulla quale è possibile riprodurre più o meno fedelmente le strategie che informano il gioco di squadra. Dopo numerosi fallimenti, ho chiesto al mio amico David come superare una difesa di cinque giocatori schierati davanti alla porta. Lui mi ha detto: «Prova ad allargarli con una punta grossa e forte in mezzo e tenendo i terzini larghi». All’inizio mi sembrava una strategia troppo contorta da esaurire in tre battute, poi ho notato che i difensori avversari si lanciavano sulla palla trattenuta sulle fasce dai miei centrocampisti, aprendo dei varchi in cui inserirsi con un passaggio filtrante.

E quindi io Football T&G mi sento di consigliarlo a tutti. Dopo 20 ore di gioco, posso dire che mi ha regalato una percezione più profonda delle dinamiche che governano il calcio. Capisco per quale motivo un giocatore infortunato o espulso sia un dito al culo per la squadra o perché un attaccante molto forte può fare la differenza. Football T&G è entrato nella mia libreria di Steam (lo si può acquistare da qui o dal sito ufficiale) da una nicchia, perché in fondo volevo un gioco di ruolo, eppure, a conti fatti, sono stato felice di aver imparato due o tre cose nuove sul calcio. All’opposto, potrebbe essere una piacevole scoperta per chi cerca l’ennesimo gioco sportivo ma si ritrova a fare i conti con scontri a turni, livelli, abilità. Non so cosa possa insegnare un gioco di ruolo a chi lo installa per la prima volta, magari soltanto che i GDR fanno schifo. Io credo che valga comunque la pena provare. Perché in un ambiente digitale in cui ci ritroviamo chiusi in bolle sempre più circoscritte e simili a noi, il fatto di poter confrontarci con qualcosa di sconosciuto, pur restando con un piede nella comfort zone, è un’opportunità interessante. Alla fine la nicchia è un limite per Football T&G solo finché lavora per sottrazione. Nel momento in cui costruisce un ponte tra gusti diversi, è anche il suo principale valore aggiunto.

Giuseppe Giordano ha provato Football Tactics & Glory su Windows.

 

Hellblade: Senua’s Sacrifice
Ninja Theory

All’alba dell’avvento dell’essere umano i confini erano più labili e la terra più soffice, lì dove l’immaginazione incontra il reale. Non è assurdo concepire quei primi istanti dell’esordio della specie umana come un conglomerato di opposti ancora tutti da definire. Sesso fluido, generi incerti, l’animale e l’uomo ancora vicini nelle pratiche sciamaniche. Il sogno e la materia divisi solo da una palpebra abbassata lenta e non sempre riconosciuta. Gli dèi camminavano sulla Terra. A maggior ragione, razionalità e follia erano ancora avvinti in un abbraccio fraterno. Così come, in quello stesso abbraccio, si muove oggi Hellblade: Senua’s Sacrifice. Prodotto da Ninja Theory, il gioco è un elegante e ammirevole esempio della potenzialità del mezzo videoludico.

Ben al di fuori dalla norma e, al tempo stesso, pienamente cosciente delle dinamiche del medium e della sua storia, il gioco prende le mosse da un trauma e da una domanda. Cosa succede alla mente, quando questa cede e perde del tutto i suoi confini? La protagonista, una guerriera vichinga, è reduce, forse, da un evento luttuoso. Il giocatore, con lei, è calato a forza in un sublime paesaggio tempestato dai suoni degli spiriti e della follia. Si gioca, e ci si circonda di voci che non smettono mai i loro commenti. Siamo l’uno nella testa dell’altra, diretti verso una meta oscura: le pieghe sinuose della mente. I palazzi lussuosi dove ancora oggi camminano gli dèi. Ma esistono davvero o sono solo una proiezione della mente? E siamo poi sicuri ci sia differenza?

Per tentare una risposta, gli autori si sono affidati ad un team di psicologi e neuroscienziati. Il risultato, enorme e rimarchevole per portata, contenuti ed estenuante bellezza (anche e soprattutto visiva e sonora), dimostra in pieno che quando si lavora e si scava, i riconoscimenti arrivano. Hellblade si è portato a casa ai Bafta Game Awards 2018, infatti, i seguenti premi: Audio Achievement, Artistic Achievement, Best Performer, British Game e Game Beyond Entertainment (quest’ultimo dedicato a chi va ben oltre il mero intrattenimento). Pare peraltro che, prima della fine dell’anno, non mancherà di vincerne altri. Perché ad un’esplorazione così ricca, affascinante e significativa dello scibile psichico e delle possibilità del mezzo, i premi e gli allori sono qualcosa in più che dovuti. A giocare, e scavare nella produzione del gioco, troverete un’overdose di meraviglie, sperimentazione e amore per il proprio lavoro. Non perdetevelo per nessun motivo.

Daniele Ferriero ha provato Hellblade: Senua’s Sacrifice su Windows.

 

Hunt: Showdown
Crytek

C’era una volta il profondo sud degli Stati Uniti. La nebbia gotica che aleggia alla periferia della civiltà. Là dove si muovono abomini, s’ambienta The Texas Chainsaw Massacre, il libretto dell’album Nola dei Down e alcune delle pagine migliori di Joe Lansdale. Più che una localizzazione geografica, un archetipo topografico e mentale, composto dai residui marci della cultura pop e trash occidentale. Da quaggiù, si immaginano gli autoctoni intenti (con grandi felici pregiudizi) ad accoppiarsi strenuamente a forza d’incesti e cannibalismo. Sia quel che sia, questi ambienti si gemellano a meraviglia con la progenie mefitica dei migliori incubi orrorifici e si prestano a dovere come cornice. In anni più recenti, e una variante nichilista, esistenzialista e poliziesca-thriller, è stato dimostrato a dovere dalla prima stagione di True Detective. Hunt: Showdown fa tesoro di tutto questo ben di dio e corre a far cassa.

Il gioco è una sorta di sparatutto in prima persona, player vs player, ambientato tra paludi e boscaglie, fienili e case abbandonate. Noi siamo dei cacciatori, mercenari dal sentimento westernato che, in squadre da due membri, si aggirano per questi meandri infestati alla ricerca delle creature demoniache e luciferine. Il nostro scopo è quello di “disinfestare” la zona e recuperare il tesoretto lasciato dai boss prima che altri mercenari intervengano a fare lo scalpo a noi o ai mostri. È una sorta di guerriglia, dove è più importante portare a casa la pelle che massacrare a destra e a manca. I nemici sono in esubero, noi siamo pochi, spesso scarsamente armati e non lo facciamo in nome di chissà quale gloria.

Il gioco, che nasce e cresce per l’online, si fa forte di quest’impostazione per creare degli scenari raggelanti e colmi d’inquietudine. Ci si sente davvero circondati dal Male, qui dentro. I meccanismi ulteriori, di permadeath, esorcismi, taglie, abilità speciali e miscellanea, lo rendono una tra le perle di puro intrattenimento del momento. Seppur ancora in fase di rodaggio, e non ancora ottimizzato a dovere, potrebbe essere una bella certezza dei prossimi mesi. Anche perché non è un semplice, e becero, battle royale e permette soluzioni tattiche e strategiche interessanti. Senza contare l’ineffabile bellezza di trovarsi con i fianchi a mollo in una palude, la luna alta nel cielo, ringhi striduli e sommessi tutto intorno e una morte violenta e inaspettata che piomba sul groppone.

Daniele Ferriero ha provato Hunt: Showdown su Windows.

 

Two Point Hospital
Two Point Studios

Mark Webley e Gary Carr hanno già cambiato una volta la storia dei videogiochi. Negli anni ‘90, lavorando a Bullfrog, crearono la Designer Series, portando il genere dei gestionali, che fino ad allora prediligeva scenari su vasta scala, come le città di SimCity o le reti ferroviarie di Railroad Tycoon, verso una dimensione più contenuta: quella di singole strutture, i parchi giochi di Theme Park o gli ospedali di Theme Hospital ad esempio, di cui il giocatore doveva occuparsi sotto ogni aspetto, dalla progettazione degli spazi all’assunzione del personale. Oggi il ritorno dei due sviluppatori con Two Point Studios somiglia a quello di vecchie rockstar che formano una nuova band e dimostrano di essere ancora i migliori interpreti possibili del sound da loro stessi inventato.

È una chiara dichiarazione d’intenti allora l’esordio del nuovo studio con Two Point Hospital, più che un seguito un vero e proprio remake del loro capolavoro Theme Hospital: chi conosce il vecchio gioco del 1997 farà presto qui a sentirsi a casa, costruendo le varie stanze dell’ospedale, assumendo medici e infermieri, piazzando macchinari, piante, cestini, termosifoni, panche, oggetti decorativi e distributori di snack e bevande in ogni angolo della struttura. Non mancano i miglioramenti e gli aggiustamenti tecnici che è lecito aspettarsi più di vent’anni dopo, e che riguardano la possibilità di zoomare e di ruotare la visuale isometrica, di spostare le stanze o di ammirare dettagliate animazioni di tutti i personaggi che animeranno i nostri ospedali.

Two Point Hospital presenta una varietà di nuove fantasiose malattie e relativi trattamenti, e tra pazienti che girano vestiti da clown (perché affetti da clownite), o con una padella incastrata sul cranio (cuoio padelluto), o con una lampadina al posto della testa (cefalea a bulbo), a volte sembra di gestire una clinica psichiatrica piuttosto che un ospedale, e il giocatore si trova a espandere e migliorare la propria struttura con il sorriso sulle labbra. Sono state rinnovate e rese più profonde anche le meccaniche che riguardano lo staff, e dunque oltre alla guarigione dei pazienti bisognerà occuparsi di ricerca scientifica, marketing e formazione del personale. I vari ospedali del mondo immaginario di Two Point County, nel quale gli sviluppatori hanno intenzione di ambientare altri titoli gestionali in futuro, introducono man mano meccaniche, sfide e obiettivi in un lento crescendo di difficoltà e, pur in assenza di una modalità sandbox, sono il grado di regalare molte ore di divertimento.

Gilles Nicoli ha provato Two Point Hospital su Linux.

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Rassegna videoludica di ottobre

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Ogni mese i redattori di Ludica ci parlano dei migliori videogiochi che hanno avuto modo di provare su PC e console.

 

FAR: Lone Sails
Okomotive

Da un po’ di anni a questa parte sono tornati di moda i videogame esperienziali: un misto tra le avventure grafiche, i giochi di esplorazione e gli art game. Sono prodotti dedicati ad un pubblico più adulto, o più profondo dell’utente Steam medio; hanno una scarsa rigiocabilità, si prendono la briga di prendere per mano il giocatore e condurlo gentilmente in un’avventura già scriptata, con poca o nessuna deviazione dalla storia principale. Se ben fatti, sopperiscono a dinamiche di gioco semplificate con una storia ben scritta, una grafica particolare, una colonna sonora curata – spesso il mix delle precedenti varia. Pensate ai Samorost, Braid, Limbo, Journey, Sword & Sworcery, Thomas Was Alone, Dear Esther, Proteus, That Dragon, Cancer: sono tutti videogame molto diversi tra loro, ma si collocano tutti sotto questa definizione. Sebbene la bolla dei videogame esperienziali sia un po’ scoppiata (ne sono usciti di ogni risma) ogni tanto appare qualche progetto ben fatto che si affianca ai capostipiti. Credo che FAR: Lone Sails possa aggiungersi tranquillamente ai nomi sopra citati.

Il gioco, sviluppato da Okomotive, parte dalle dinamiche di un platform e ci fa controllare un piccolo personaggio senza nome, vestito di rosso, alla guida di un veicolo/vascello di ispirazione dieselpunk attraverso un mondo post apocalittico e desolato, sempre in avanti, verso la destra dello schermo. Il controllo del veicolo è relativo, in quanto il compito del giocatore è premere il bottone per attivare il motore, il freno quando serve, ricaricare il serbatoio, riparare in corsa, recuperare carburante; occasionalmente ci sono delle soste forzate in cui la guida lascia spazio a momenti puzzle-platform mai troppo complessi che servono per sbloccare il passaggio o fornire il veicolo di un nuovo, necessario pezzo.

Come dicevo sopra, a delle dinamiche non troppo complesse in questi casi fanno da contraltare un game design, una colonna sonora ed un’esperienza di gioco notevoli: il giorno e la notte si alternano, così come gli ambienti circostanti e le condizioni atmosferiche, con la musica che accompagna alla perfezione; ogni fermata è una suggestione, un ricordo del mondo di gioco desolato e distrutto, bellissimo e malinconico: zone industriali in rovina, il fondo dell’oceano ormai essiccato con enormi navi e sottomarini, il deserto e la tundra. Il bilancio tra game design, esperienza di gameplay e esperienza di gioco è un terreno scivolosissimo e, quando si parla di giochi come FAR: Lone Sails, anche decisamente personale.

Mi sento però di dire che le due ore passate su FAR: Lone Sails (il tanto di finire il gioco) sono state tra le migliori due ore passate a giocare ai videogiochi degli ultimi tre mesi, grazie anche alle suggestioni e allo spazio che lascia all’esplorazione pura della mente del giocatore (non viene detta neanche una parola in tutto il gioco). Proprio quando la formula sembra stancare ecco che cambia qualcosina: il gioco è misurato, tarato, e bello abbastanza da farci andare avanti senza pensarci due volte. Senza la pressione, lo stress o la maestria che richiedono videogiochi più complessi, i ragazzi di Okomotive hanno confezionato una bella avventura che, a fine viaggio, lascia contenti, pieni.

Mattia Pianezzi ha provato FAR: Lone Sails su Mac.

 

Hello Neighbor
Dynamic Pixels

Tra le pulsioni principali che ci trasciniamo dietro, quella alla curiosità è tra le principali. Di curiosità morì il gatto, si dice, e James Stewart sulla sua bella sedia a rotelle rischiò anche lui di rimanerci secco. Noialtri abbiamo fatto tesoro di quella tensione in maniera molto più prosaica. Se tagliamo fuori la prospettiva di ricerca scientifica e limitiamo tutto forzatamente all’intrattenimento, lo scavo tra giochi, serie, fumetti e vattelapesca frutta spesso diversi tesori. Tra questi, Hello Neighbor, che è un po’ la trasformazione del voyeurismo de La finestra sul cortile in chiave videoludica.

Difatti siamo noi, ragazzini imberbi e sospettosi che rimbalziamo il pallone per strada, alla presa con un inquietante, baffuto, vicino, che pare intento a scopi tutt’altro che nobili. E il nostro fine ultimo, quindi, diventerà proprio quello di sbirciare e intrufolarci in casa sua per capire cos’ha, questo fantomatico, tremendo vicino da nascondere. La risposta potrebbe, o meno, essere ben diversa rispetto a quanto ci aspettiamo. Il gioco, ad ogni modo, ha una struttura anomala. Di per sé prevede una visuale in soggettiva, che tuttavia è ben lontana dagli eccessi dei soliti FPS, e permette di muoversi negli esterni e nella casa dell’uomo soltanto manipolando oggetti e strumenti. Il nostro compito principale sarà quello di capire come entrare nella casa senza farci scoprire, carpire i suoi segreti e uscirne speranzosamente indenni.

La struttura, come dicevamo, è bizzarra: si tratta di una sorta di nascondino in salsa thriller, uno stealth, in sostanza. Tuttavia permette poi diverse derive atipiche. Pare infatti di muoversi in una sorta di puzzle game d’ambienti: come mi muovo? Dove, cosa posso usare per fregare il mio nemico? Inoltre, propone un game over che non è mai esattamente tale: ogni volta abbiamo la possibilità di riprovare la nostra sortita; una sorta di progressione che invita a tentare, sperimentare, correre. Sulla carta, in ogni caso, il gioco dovrebbe offrire un sistema di difficoltà crescente: ogni volta che veniamo catturati il nostro vicino impara qualcosa sul nostro conto e adatta le sue tecniche di conseguenza, rendendo la nostra vittoria sempre più difficile.

Il meccanismo funziona; ma funziona in parte. Perché in effetti si incontra in qualche caso qualche bug di troppo e, nonostante l’adattabilità del nemico, il respawn infinito, gli ambienti non perfettamente bilanciati e le dinamiche a volte macchinose non conducono agli esiti che immaginiamo i programmatori si auspicassero. Tutto sommato però l’idea è ottima, e la realizzazione grafica impatta piacevolmente grazie al suo contrasto tra il contenuto inquietante e l’apparentemente cartoonesca e zuccherosa estetica. Hello Neighbor vive insomma di luci e di ombre. Come primo passo per un ottimo lavoro futuro, e un gioco curioso e sperimentale, vale la candela. Sulla soddisfazione ludica in sé, invece, lascia un poco delusi, purtroppo.

Daniele Ferriero ha provato Hello Neighbor su Windows.

 

Mana Spark
BEHEMUTT

Il genere dei dungeon crawler procedurali è stato decisamente inflazionato negli ultimi anni: dall’infernale e frenetico bullet hell di Enter The Gungeon allo statico e strategico Darkest Dungeon, passando per le varianti più impensabili, come quella ritmica di Crypt of the Necrodancer, se ne sono esplorate praticamente tutte le possibilità. In un panorama simile non è dunque facile emergere, ma Mana Spark, pur senza brillare particolarmente, sa proporre alcune caratteristiche che lo rendono un titolo diverso dagli altri.

La prima cosa che colpisce subito è avere a disposizione come personaggio giocabile un arciere; nonostante l’arco sia spesso presente come arma secondaria nei dungeon crawler, averlo come unico strumento per sconfiggere i nemici è inizialmente spiazzante per chi è abituato ai combattimenti all’arma bianca tipici di questo genere. In questo Mana Spark ha pochi titoli con cui possa essere confrontato: viene sicuramente in mente Titan Souls, del 2015, che pure costringeva il giocatore a capire i tempi e i movimenti necessari a uscire fuori da situazioni difficili avendo la possibilità di ingaggiare i nemici solamente a distanza.

Gli stessi nemici hanno un’imprevedibile maniera di comportarsi, perché sono capaci di collaborare tra loro: ad esempio uno potrebbe montare in groppa e iniziare a cavalcarne un altro. In Mana Spark non è quindi sufficiente identificare quali avversari dobbiamo affrontare, conoscendone con l’esperienza le modalità di attacco: bisogna sempre badare anche al tipo di interazioni che i nemici possono mettere in atto in qualsiasi momento, cambiando improvvisamente le carte in tavola. Il tipo di gameplay che ne risulta è dunque più tattico del solito: il giocatore deve sempre essere in movimento, ricercare la giusta posizione per scoccare le sue frecce, osservare con attenzione i comportamenti dei nemici, e usare a suo vantaggio trappole e altri elementi ambientali.

A mitigare il livello di difficoltà ci penseranno per fortuna gli upgrade di cui è possibile rifornirsi tra un’esplorazione del sottosuolo e l’altra, nell’accampamento che all’inizio del gioco verrà creato vicino all’ingresso del dungeon, e che nel corso del gioco verrà espanso, un po’ come accade ad esempio in SteamWorld Dig. Altre scelte di game design volte ad aiutare il giocatore sembrano invece più discutibili: la presenza di una mappa di ogni livello che non si completa una stanza alla volta, ma rivela la struttura del dungeon fin dall’inizio, è vero che aiuta ad orientarsi e a pianificare i propri spostamenti, ma non si rivela un buon sostituto dei classici teletrasporti e non riduce poi molto il backtracking (la necessità di tornare ad attraversare zone già completate), com’era nelle intenzioni degli sviluppatori. Si tratta di uno tra tanti difetti di poco conto che danno però nel complesso l’idea che Mana Spark potesse essere un videogioco più rifinito.

Gilles Nicoli ha provato Mana Spark su Linux.

 

Megaquarium
Twice Circled

I gestionali stanno tornando di gran moda, e insieme a Two Point Hospital, di cui abbiamo parlato il mese scorso, Megaquarium si candida a essere uno dei migliori rappresentanti di questo glorioso genere videoludico nel 2018. Il titolo dice tutto di Megaquarium, gioco che ci permetterà di costruire e di gestire acquari sempre più grandi e prestigiosi e ricchi sia di animali che, si spera, di visitatori paganti.

Rispetto a tanti altri gestionali il tema dell’acquario qui consente di far diventare la struttura architettonica il primissimo elemento di sfida: dovremo infatti sempre separare le zone in cui si troverà a lavorare lo staff dai percorsi che faranno i visitatori. A questo scopo costruiremo diverse stanze accessibili solo al nostro personale, dove andremo a posizionare sia le vasche che tutti i macchinari necessari al funzionamento delle stesse, oltre agli attrezzi per la loro manutenzione e riparazione, e lasceremo a disposizione dei visitatori i corridoi dai quali si potranno ammirare le varie specie ospitate nel nostro acquario.

Occuparsi poi di pesci, crostacei e altra varia fauna marina genererà ulteriori grattacapi, perché ogni specie avrà bisogno di un diverso grado di temperatura e di purezza dell’acqua, oltre che di mangimi differenti. Bisognerà poi dedicarsi a ricreare gli habitat prediletti dalle varie specie: alcuni pesci hanno bisogno di piante, altri di tronchi di legno in cui nascondersi. altri ancora si troveranno bene solo in mezzo alle rocce. Non solo: alcuni pesci col tempo diventeranno più grandi e avranno bisogno di vasche più capienti. Attenzione poi alla convivenza di diverse specie all’interno della stessa vasca, perché i pesci più grandi tenderanno a vedere nei più piccoli un ottimo spuntino, e quelli più aggressivi renderanno comunque la vita complicata ai più timidi. Inutile dire che ogni volta che morirà un esemplare la reputazione del nostro acquario verrà intaccata.

Megaquarium offre così un giusto mix tra un’esperienza di gioco rilassante e una discreta quantità di problemi da risolvere e di obiettivi da raggiungere per completare ogni livello e passare all’acquario successivo, in un crescendo di complessità, man mano che si sbloccano nuove specie e nuovi macchinari, e di quantità, dato che sarà spesso necessario espandersi per fare spazio a nuove vasche e nuove strutture. Il tutto aiutati e guidati da un’interfaccia pulita ma ricca di informazioni, e deliziati da uno stile grafico cartoonesco decisamente riuscito.

Gilles Nicoli ha provato Megaquarium su Linux.

 

Pig Eat Ball
Mommy’s Best Games

Il Re Torta ha deciso di indire una serie di giochi nel suo regno, convinto di trovare nel vincitore il perfetto sposo per sua figlia; quest’ultima però ha davvero poca voglia di matrimonio, vorrebbe divertirsi a girare il mondo piuttosto, perciò decide di inforcare un paio di occhiali per rendersi assolutamente irriconoscibile e di partecipare ai giochi e vincere per conquistare la propria libertà. Sono queste le curiose premesse di Pig Eat Ball, un gioco il cui titolo equivale in sostanza a un manuale di istruzioni.

La strana struttura in cui è ambientato il gioco è infatti una stazione spaziale abitata da animali più o meno antropomorfi. Il giocatore si trova nei panni della principessa, che è un maiale: il gameplay può essere descritto come un felice incontro tra lo storico Pac-Man e il famoso browser game multiplayer Agar.io, perchè nonostante i giochi siano molto vari ruotano sempre intorno alla necessità di mangiare palline, e man mano che si mangia si diventa più grandi; o sarebbe meglio dire si ingrassa, dato Pig Eat Ball è un gioco, come dire, molto corporale.

Sparsi per il mondo del gioco ci sono dunque tante gare a cui partecipare: lo scopo è ottenere un punteggio abbastanza alto da ricevere in premio una medaglia d’oro, d’argento o di bronzo. La varietà delle proposte di questi minigiochi è uno dei punti di forza di Pig Eat Ball, che non cessa mai di introdurre nuove varianti e nuove meccaniche, e dunque non annoia mai nel lungo termine, e si presta bene anche a sessioni di gioco di pochi minuti. A volte si gareggia contro il tempo, a volte si è in competizione con degli avversari, ma la costante è la gestione delle proprie dimensioni. Ingrassando infatti la nostra principessa non sarà più in grado di attraversare certi passaggi, o di evitare di essere colpita da spine o nemici.

La soluzione in questi casi è vomitare. Avete letto bene, le palline gialle che mangiamo possono essere vomitate come palline verdi per ridurre le nostre dimensioni, salvo poi doverle di nuovo mangiare per completare il livello, ma aspettando che tornino a essere gialle: mangiare palline ancora verdi, cioè il nostro vomito, ci farà solo vomitare ancora, perdendo tempo prezioso. Tutta questa attività viene resa nel gioco, sia a livello grafico che sonoro, in maniera divertente e disgustosa, facendo di Pig Eat Ball uno dei titoli più originali e fuori di testa del 2018. È sconsigliato giocarlo dopo i pasti.

Gilles Nicoli ha provato Pig Eat Ball su Linux.

L'articolo Rassegna videoludica di ottobre sembra essere il primo su Dude Mag.