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La rivincita dei pixel

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Negli anni ‘80 e ‘90, una grafica con i pixel in bella evidenza era semplicemente l’unico aspetto che potevano avere i videogiochi: quello consentito  dai processori 386 e dalle schede VGA. Da qualche anno a questa parte, invece, nel mondo videoludico la pixel art è diventata ufficialmente una tendenza.

La definitiva certificazione dell’avvenuto passaggio dalla nicchia per  malinconici al pubblico dei grandi numeri è forse stata l’uscita del film Pixels, un esplicito omaggio a classici come Pac-Man, Space Invaders e Donkey Kong. Ma nostalgia a parte, cosa porta una software house a scegliere questo tipo di grafica per una nuova produzione? Costi e tempo di sviluppo decisamente ridotti, per prima cosa, ne facilitano la creazione da parte di un piccolo team; i giochi in pixel art sono inoltre più semplici da programmare, anche rispetto al più elementare 3D, senza contare la maggiore facilità con cui si può ottenere un eseguibile che funzioni su piattaforme diverse, smartphone compresi.

Il mercato è stato così letteralmente invaso da nuovi giochi, spesso sviluppati da team indipendenti, molte volte dal livello qualitativo molto basso. In mezzo a tante produzioni deludenti non mancano però titoli molto validi, caratterizzati da idee innovative e da solidi meccanismi di gioco, che fanno uso della pixel art perché si tratta ancora oggi di uno dei modi migliori per creare giochi di grande atmosfera.

Qui ne ho selezionati tre: è il mio personalissimo podio dei pixel nel 2016.

 

Hyper Light Drifter

 

 

Un mondo sconosciuto da esplorare, antiche tecnologie da scoprire, una storia da ricostruire un frammento dopo l’altro: il mondo alieno in cui è ambientato Hyper Light Drifter è esaltato dalla grafica in pixel art e da un’ottima scelta della palette di colori. Il giocatore si troverà ad attraversare scenari mozzafiato, ricchi di segreti e zone nascoste, e dovrà affrontare diversi nemici oltre ai classici boss che dominano le varie aree: il sistema di combattimento, soprattutto se si dispone di un gamepad, regala grandi soddisfazioni.

In tutto il gioco, poi, non c’è una sola riga di testo: la ricostruzione di tutto quello che è accaduto prima del nostro arrivo, una storia che palesemente ad un certo punto è finita, per qualche motivo, molto male, è lasciata all’intuizione e all’immaginazione. Così il livello di immersione è totale, anche grazie alla musica di Disasterpeace, già autore delle colonne sonore di molti altri giochi, tra cui Fez e Mini Metro, e di un bel film come It Follows, uscito nel 2014 ma distribuito nelle sale italiane solo questa estate.

Gli sviluppatori di Heart Machine, e in particolar modo il lead developer Alex Preston, hanno citato come fonti di ispirazione videoludiche The Legend of Zelda: A Link to the Past e Diablo, mentre per quanto riguarda la direzione artistica il punto di riferimento dichiarato è Nausicaa della valle del vento, uno dei molti capolavori di Hayao Miyazaki.

 

Kingdom: New Lands

 

 

Sviluppato da un team di sole due persone, l’olandese Thomas Van Der Berg e l’italiano trapiantato in Islanda Marco Bancale, Kingdom: New Lands è la versione aggiornata e definitiva del gioco precedentemente intitolato semplicemente Kingdom.

Si tratta di un titolo in side-scrolling dalle meccaniche davvero semplici: si fa tutto con le quattro frecce della tastiera (o del gamepad), ma questo non impedisce una notevole complessità a livello di gameplay; lo scopo è edificare il proprio regno, dotarlo di una solida economia e difenderlo dagli attacchi notturni di mostri che provengono dai portali posti ai lati del mondo di gioco, che viene generato casualmente ad ogni nuova partita.

La minaccia è impossibile da debellare: lo scopo del gioco è abbandonare l’isola in cui ci si trova prima che sia troppo tardi, e ricominciare da capo in una nuova isola più grande e con più variabili a disposizione (difficile dire di più senza spoiler). Il ciclo giorno-notte e il ciclo delle stagioni sono realizzati splendidamente in pixel art, e la costante presenza di uno specchio d’acqua è ulteriore motivo di gioia per gli occhi del giocatore. Kingdom: New Lands mescola strategia, costruzione ed esplorazione proponendo un concept sorprendentemente originale e decisamente riuscito.

 

Okhlos

 

 

Una cosa che ricorda benissimo qualsiasi studente del liceo classico è quanto fossero cattive, iraconde, capricciose e vendicative le divinità greche: grazie a Okhlos i cittadini della democrazia più antica del mondo sono finalmente in grado di ribellarsi ad un pantheon così intrattabile e invadente. Il giocatore veste i panni di un filosofo e invece di agire in prima persona, ha il compito di guidare una massa: Elias Canetti ci avrebbe perso delle ore. Una città dopo l’altra, ci si farà strada sconfiggendo una divinità alla volta. Stando alle tipologie di Albert Camus, quella di questo gioco è senza dubbio una rivolta metafisica.

Molte delle possibilità di successo sono legate alla fortuna, anche se si ha almeno la possibilità di determinare in una certa misura la composizione della folla. È importante avere schiavi, che possono raccogliere e portare con sé degli oggetti; è importante avere altri filosofi, perché prenderanno loro il comando qualora dovesse morire quello controllato dal giocatore, e la ribellione finisce quando non ci sono più filosofi a disposizione; è importante avere guerrieri forti nell’attacco e altri forti nella difesa, e soprattutto scambiare, nel corso della partita, alcune di queste unità con degli eroi dalle capacità uniche: avere Circe che trasforma i nemici in maiali, si capisce, è un discreto vantaggio.

 

Tutti e tre i titoli presentati in questa prima puntata di Homo Ludens si possono giocare su Windows, Mac e Linux, e sono stati provati sulla più recente versione LTS di Ubuntu.

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Tutti i colori del rompicapo

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Il codice della strada stabilisce che al verde le automobili devono procedere mentre al rosso devono fermarsi. Il lutto noi lo associamo al nero, i giapponesi lo associano al bianco. Il viola porta sfortuna a teatro. Il giallo identifica un genere letterario, e per estensione anche determinati fatti di cronaca, solamente in Italia, per via della collana Mondadori. Il blu è il colore più utilizzato sul web.

È davvero curioso scoprire quanti significati, quante storie si siano accumulate nelle culture dei popoli a partire dalla percezione del colore. Dalla coppia che compra una casa e decide il colore che dovranno avere le pareti del soggiorno e della camera da letto, fino alle opere di Picasso e Mondrian,  il colore ci piace e ci interessa sempre perché è completamente arbitrario, si adatta alle preferenze, veicola un gusto, trasmette sensazioni e sentimenti differenti. Chi crea videogiochi gode del massimo livello di discrezionalità possibile: un comune monitor LCD può rendere più colori di quanti l’occhio umano ne possa distinguere. Vedremo qui tre titoli usciti nel corso del 2016 che presentano scelte stilistiche molto interessanti.

 

Hue

 

 

Negli ultimi anni sono usciti diversi giochi basati su idee estreme, innovative, geniali: in VVVVV ad esempio non si può saltare, ma solo invertire il senso della forza di gravità; in The Floor Is Jelly, come anticipa il titolo, ci si muove in un modo fatto tutto di gelatina. Hue è altro un piccolo miracolo di questo tipo, dove il gameplay si basa su una sola, semplice e bellissima meccanica: il giocatore può modificare il colore dello sfondo di tutti i livelli, e in questo modo può far sparire ostacoli, può vedere oggetti nascosti, può rendersi invulnerabile a calamità di ogni guisa. Tutte le possibilità offerte da simili premesse trovano poi il loro svolgimento in una serie di scenari che si susseguono in un crescendo di difficoltà. Non si tratta di un rompicapo puro, dal momento che non mancano elementi platform, e quindi spostamenti e salti da fare con il giusto timing, magari selezionando pure, nel mentre, un nuovo colore necessario a completare con successo l’azione: per giocare ad Hue un gamepad è molto consigliato.

 

Pan-pan

 

 

Se Pan-pan è l’unico vero gioco zen dell’anno, lo deve anche ai suoi colori: il giocatore si trova in una terra sconosciuta, dove il suo personaggio, una simpatica e graziosa fanciulla, è atterrato dopo aver avuto qualche problema con il suo mezzo di trasporto, molto simile a una mongolfiera.

Osservato dall’alto, con visuale isometrica ruotabile a 360 gradi, il mondo di Pan-pan presenta tutti gli elementi classici del tipico rompicapo ambientale: ci sono varie aree piene di oggetti e di meccanismi con cui interagire, scoprendo come funzionano, a cosa servono, quali effetti producono, in che modo si possono combinare tra loro. Non siamo dunque di fronte al tipico rompicapo in cui l’obiettivo è chiaro e occorre solo trovare il modo per conseguirlo (ad esempio A Good Snowman Is Hard To Built, giusto per citarne uno adorabile e molto adatto al freddo di questi giorni); qui, almeno inizialmente, non è affatto evidente nemmeno cosa ci sia da fare, e dove, anche perché si possono visitare fin da subito diverse aree di cui ci si potrà occupare solo in seguito, dopo aver avuto accesso ad altre che si sbloccano dopo aver risolto i primi puzzle. La componente esplorativa è fondamentale dunque, e al giocatore è richiesta curiosità, inventiva e attenzione ai tanti indizi disseminati qua e là.

 

Serial Cleaner

 

 

Una delle sequenze giustamente più famose di The Wire, la cosiddetta “fuck scene”, ci insegna che una scena del crimine può raccontare a due investigatori, senza che questi debbano neanche parlarsi, un bel po’ di cose. Per evitare che si possano raccogliere troppe prove, e arrivare così a trovare il colpevole, esiste una figura resa mitica da un personaggio di Pulp Fiction: il signor Wolf. Serial Cleaner fa interpretare al giocatore questo ruolo: si arriva in posti dove sono stati commessi orribili delitti e si fa sparire tutto, cadaveri, armi, macchie di sangue, evitando di attirare l’attenzione della polizia che già presidia il luogo; il risultato è un rompicapo posizionale (avrebbe potuto funzionare anche a turni, ma è molto più fluido e divertente così) con elementi stealth. La palette di colori scelta aiuta a trasmettere vibrazioni anni ‘70 (insieme alla colonna sonora), a mettere in evidenza tutti gli elementi principali ai fini del gameplay, e anche a stemperare la violenza implicita nel contesto grazie all’uso di tonalità pastello che rilassano la vista. Serial Cleaner è un gioco consigliato a tutti coloro che hanno speso ore su Hotline Miami e altri shooter simili, affinché sia chiaro che qualcuno poi dovrà andare a ripulire quel casino.

 

Tutti e tre i giochi presentati in questa puntata di Homo Ludens sono disponibili su Windows, Mac e Linux, e sono stati provati sulla più recente versione LTS di Ubuntu.

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Input e output

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Il mio paradosso paranoico preferito riguardo ai pericoli che potrebbero derivare dall’avvento della singolarità, ovvero dalla creazione da parte dell’uomo di un’intelligenza artificiale, è quello della paperclip maximizer: una IA il cui unico scopo è produrre quante più graffette possibili e che, nell’esperimento mentale proposto nel 2003 dal filosofo Nick Bostrom della Oxford University, finirebbe per sterminare l’umanità e per distruggere il mondo, pur non essendo affatto malvagia. Ad un tale disastro si giungerebbe infatti non per cattiveria, ma per efficacia: l’intelligenza artificiale troverebbe modi sempre più efficienti, più veloci e più economici per produrre, finendo col trasformare l’intero pianeta in graffette, poi l’intero sistema solare, poi porzioni sempre più consistenti di universo, e così via. Ai nostri occhi questa cosa potrebbe sembrare una completa idiozia, ma bisogna anche immaginare il punto di vista di una siffatta intelligenza artificiale: a voler prendere in considerazione la vita, l’amore, la bellezza e la varietà del mondo, si finirebbe solamente con il rallentare la produzione di graffette. Una cosa molto triste di questo esperimento mentale è che l’intelligenza artificiale, tutta presa da questa sua ansia di ottimizzare i processi produttivi, non si divertirebbe per nulla. Farebbe tutto molto seriamente. Trovare il modo migliore per ricavare determinati output a partire da alcuni input può invece essere parecchio divertente, come dimostrano i tre giochi che andiamo a trattare in questo nuovo appuntamento di Homo Ludens, la rubrica di videogiochi di Dude Mag.

 

Factorio

 

In sviluppo dal 2012, ancora non completo — ci lavora un team composto da 15 persone, a Praga — e ciò nonostante stabile, perfettamente giocabile oltre che già ricchissimo di contenuti, Factorio è un gioco in cui si costruiscono fabbriche. Il pretesto è semplice: siete precipitati su un pianeta sconosciuto, la vostra navicella spaziale è andata distrutta ma per fortuna voi siete sopravvissuti, e dovete solo trovare il modo di tornare a casa. A questo scopo, farete affidamento su quelle stesse tecnologie che vi hanno portato fin là: a partire da giacimenti di ferro, di carbone, di rame e di altre materie prime che si trovano sul pianeta, andrete a costruire delle fabbriche enormi e complesse con la prospettiva di ottenere, alla fine, una nuova navicella spaziale; in mezzo, però, un numero incredibile di prodotti intermedi, di tecnologie da ricercare, di nastri trasportatori e bracci meccanici da posizionare nel modo migliore all’interno della vostra fabbrica. Le risorse finiscono inoltre abbastanza rapidamente e sarete costretti ad andare a cercarne altre in aree distanti, e quindi a collegare i nuovi giacimenti con i vostri impianti produttivi, magari costruendo e organizzando un bel sistema ferroviario, attività che da sola potrebbe costituire un gioco a sé. Come non bastasse, il pianeta è abitato da creature abbastanza ripugnanti che mal sopportano la vostra fabbrica e l’inquinamento che produce, e che perciò vi attaccheranno spesso: probabilmente sono loro dalla parte della ragione, ma bisogna salvare la pelle e allora sarà meglio iniziare anche a produrre torrette difensive, armi e munizioni; Factorio, in un 2D che ricorda classici come Starcraft o Dune 2, trasmette perfettamente il senso di minaccia, di pericolo, di isolamento e di estraneità che deve provare un personaggio nella vostra situazione, così come il fascino dell’esplorazione e delle infinite possibilità che derivano dall’avere un intero pianeta come gigantesco playground per le vostre attività. Factorio presenta una modalità campagna, che serve principalmente ad imparare le basi del gioco, e una modalità sandbox, in cui sarà il giocatore stesso a decidere sfide e obiettivi. È in questa seconda modalità che si avrà modo di apprezzare appieno l’incredibile livello di complessità offerto da questo titolo. Vi potrete dedicare alla realizzazione di progetti di ogni tipo, anche del tutto alieni al contesto in cui vi trovate, tipo una versione funzionante di Tetris. C’è da passarci un numero di ore spropositato.

 

Human Resource Machine

 

Un giorno il vostro lavoro verrà svolto da un robot: due ricercatori di Oxford hanno anche calcolato quanto alte siano le probabilità che questo avvenga nei prossimi 20 anni (lo studio è del 2013, quindi potete già contare quattro anni in meno). Una buona tattica, a questo punto, sembrano suggerire gli sviluppatori di Human Resource Machine, potrebbe essere quella di iniziare a lavorare imitando i robot, e quindi usando i linguaggi di programmazione. Breve inciso: la gamification dei linguaggi di programmazione è una nicchia che sta godendo di una grande fortuna negli ultimi tempi, e ci sono titoli come quelli della Zachtronics in cui non si capisce nemmeno più bene se sia giusto aver acquistato di tasca propria il gioco, o se sarebbe più corretto aspettarsi una retribuzione per ogni singolo livello risolto. La grafica da cartoon e l’umorismo nero che caratterizzano Human Resource Machine, ultima fatica dai creatori di World of Goo e Little Inferno, ne fanno però una delle proposte più divertenti e accessibili tra quelle assimilabili a questo genere. Il compito del giocatore, che nel gioco è comunque un lavoratore, è quello di prelevare alcuni pacchi contrassegnati da una serie di numeri, eseguire le corrette operazioni, e rispedire tutto in modo da ottenere i numeri richiesti dal proprio principale, che supervisiona il lavoro ed è sempre pronto ad arrabbiarsi moltissimo quando viene commesso un errore. Il gioco premia anche l’eleganza della soluzione, inversamente proporzionale al numero di passaggi utilizzati, ed è in grado di segnalare una soluzione sbagliata anche quando il risultato risulta corretto per un puro caso legato ai numeri generati per quella particolare prova. Se i primi livelli sono decisamente semplici e intuitivi, arrivare fino in fondo è un traguardo che potreste voler mettere in bella vista sul vostro curriculum vitae.

 

Block’hood

 

Quello che davvero manca a SimCity e a tutti i city builder che ne condividono l’impostazione, ad esempio Cities: Skylines, è lo sviluppo verticale della città, ovvero la sua dimensione più contemporanea e futuribile. Lo scorso anno è uscito per Verso Books un bel volume di Stephen Graham utile ad approfondire questo tema. In ambito videoludico il modo migliore per esplorare la costruzione verticale di una città è invece Block’hood, sviluppato da Jose Sanchez, pubblicato da Devolver Digital, e basato su un principio molto semplice: ogni elemento a disposizione del giocatore è un blocco, indipendentemente dalla sua funzione; sono blocchi gli alberi che producono aria fresca, i pozzi che forniscono acqua, gli edifici commerciali così come gli spazi abitativi, gli spazi comuni che garantiscono l’accesso alle varie costruzioni, gli ascensori che permettono di sviluppare in verticale il proprio progetto. Ogni singolo blocco richiede alcune cose per funzionare e ne produce altre utili a rendere operativi ulteriori blocchi; tutto viene messo sullo stesso piano: un ascensore non potrà funzionare senza un pannello solare o una pala eolica, cioè blocchi che abbiano tra i propri output l’elettricità, e secondo il medesimo principio una scuola non potrà funzionare senza un blocco abitazione che abbia tra i propri output i bambini, e — sorpresa — all’interno di questo schema anche il denaro è solo uno dei tanti elementi necessari a tenere in equilibrio l’ecosistema che si andrà a costruire. Infatti, se la costruzione non costa nulla e si è sempre liberi di posizionare nuovi blocchi, questi decadono non appena vengono a mancare le risorse necessarie a farli funzionare: la sfida diventa così un delicato gioco di bilanciamento tra tutti gli elementi prodotti e richiesti dai blocchi posizionati, e ogni costruzione avrà un suo equilibrio peculiare, in base a quali blocchi il giocatore avrà scelto di utilizzare tra i tantissimi presenti in Block’hood. Il risultato avrà l’aspetto di un modellino e facilmente una struttura simile a quella delle nuove green tower che stanno cambiando lo skyline di Milano. Il gioco presenta due diverse modalità: Challenge, in cui è disponibile una limitata quantità di blocchi da usare per conseguire determinati obiettivi, e Sandbox, in cui sono disponibili tutti i blocchi e si potrà iniziare a costruire sia tenendo conto di input e output, pena il decadimento di tutta la vostra bella creazione, sia scegliendo di essere liberi da qualsiasi vincolo, per una sessione di gioco zen, rilassante e puramente estetica. La colonna sonora è bella ma un po’ ripetitiva: considerate le tematiche, mentre piazzate nuovi blocchi uno sull’altro potreste provare ad ascoltare Urbanism and Ecology di William Selman.

 

Tutti i giochi, come al solito, sono disponibili per Windows, Mac e Linux, e sono stati testati sulla più recente versione LTS di Ubuntu.

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Thimbleweed Park: il nuovo capolavoro di Ron Gilbert

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Nel 2012 la LucasArts, fondata trent’anni prima da George Lucas, viene venduta a Disney per tre miliardi di dollari. Nel 2013 chiude per sempre. È la fine di una delle più gloriose software house di sempre, che per anni aveva prodotto non solamente videogiochi basati sulla proprietà intellettuale più redditizia di cui disponesse, l’universo di Star Wars, ma anche una serie di avventure grafiche indimenticabili, capaci di definire le regole e lo stile di un intero genere di intrattenimento videoludico.

Ron Gilbert entra nella LucasArts a metà degli anni ‘80: il suo compito è inizialmente quello di rendere disponibili su Commodore 64 i titoli che la compagnia aveva già sviluppato per il sistema Atari. Presto si guadagna però l’opportunità di lavorare su un progetto tutto suo, e per realizzare Maniac Mansion (1987) programma un game engine chiamato SCUMM, acronimo che sta per Script Creation Utility for Maniac Mansion. L’interfaccia originale SCUMM verrà utilizzata anche per Zak McKracken and the Alien Mindbenders (1988), e verrà poi più volte modificata, restando comunque un tratto caratterizzante di quasi tutte le seguenti avventure targate LucasArts: in alto il mondo del gioco, in basso i comandi, vale a dire una serie di verbi, e successivamente anche l’inventario degli oggetti a disposizione del giocatore.

Nel 1989 accadono due cose importanti: esce Indiana Jones and the Last Crusade, un’avventura che riprende la trama dell’omonimo film prodotto da George Lucas (anche se il titolo migliore ad avere come protagonista il celebre archeologo sarà il successivo Indiana Jones and the Fate of Atlantis, basato su una storia originale); entrano poi Tim Schafer e Dave Grossman in LucasArts, appena in tempo per essere coinvolti da Ron Gilbert nella creazione del suo capolavoro: The Secret of Monkey Island (1990). Nel 1991 esce il seguito, Monkey Island 2: LeChuck’s Revenge. Nel 1992 Ron Gilbert lascia la LucasArts.

 

 

Tim Schafer invece resterà nella compagnia fino alla fine degli anni ‘90, realizzando altre avventure: tre delle più fortunate sono state riproposte in versione rimasterizzata negli ultimi anni dalla sua nuova software house, la Double Fine. A partire dai primi anni del 2000 le avventure grafiche sono infatti cadute in disgrazia, e molti appassionati si sono dovuti accontentare di tornare sui vecchi classici LucasArts, utilizzando strumenti come l’emulatore open source SCUMMVM, che tuttora resta la migliore opzione per giocare molti titoli: basta avere una copia dei file originali per farli girare senza problemi su Linux, Mac, Windows e persino Android.

Ad un certo punto il sentimento che domina il nostro tempo, la nostalgia, riporta in auge le avventure grafiche: il 9 febbraio del 2012 Tim Schafer apre su Kickstarter una raccolta fondi per un nuovo gioco; chiede 400.000 dollari e raccoglie oltre 3 milioni. È uno dei risultati più impressionanti mai raggiunti sulla piattaforma di crowdfunding. Broken Age esce diviso in due parti, pubblicate rispettivamente nel 2014 e nel 2015. È il momento di recuperare un po’ di titoli storici e di renderli di nuovo disponibili al grande pubblico: Double Fine si accorda con Sony, molto interessata a veder sbarcare su PlayStation qualche vecchio classico, e con Disney, sempre interessata a veder lievitare i propri conti in banca.

A questo punto inizia un’operazione di archeologia digitale, o di restauro videoludico, ben documentata da Polygon, che porta nel 2015 all’uscita di Grim Fandango Remastered, nuova versione del maggior successo di Tim Schafer, datato 1998, la sua prima avventura a non utilizzare lo SCUMM come game engine. Nel 2016 esce anche la versione rimasterizzata di Day of the Tentacle, erede spirituale di Maniac Mansion pubblicato nel 1993. Pochi giorni fa è arrivato anche il remaster di Full Throttle, a completare una trilogia dei migliori lavori di Tim Schafer in LucasArts.

 

 

Da qualche settimana è però disponibile anche un titolo ben più pesante: la nuova avventura grafica di Ron Gilbert, anch’essa finanziata tramite una raccolta fondi su Kickstarter. La storia si svolge nel 1987. Ci sono degli agenti federali che giungono in una piccola cittadina americana per indagare su un caso di omicidio; vengono accolti dallo sceriffo e introdotti in una piccola comunità piena di personaggi piuttosto strambi; c’è anche una famiglia dalle grandi disponibilità economiche e dalle dinamiche interne conflittuali e complicate; e c’è un hotel, e ci sono i boschi, dove accadono cose strane. L’acronimo di questo luogo è TP, ma l’articolo che state leggendo non ha cambiato argomento: Twin Peaks è evidentemente una delle più grandi fonti di ispirazione di Thimbleweed Park.

La prima cosa che colpisce è l’interfaccia: è commovente ritrovare lo SCUMM, ricreato praticamente da zero al solo scopo di restituire il classico aspetto con i vari verbi e lo spazio per l’inventario. Si strizza l’occhio ai nostalgici, certo, e agli appassionati più integralisti, pure, ma sembra anche una scelta fatta da Ron Gilbert per ricordarci che è questo il modo in cui lui ha sempre fatto le avventure grafiche, è questo il loro aspetto, ed è così che si giocano i classici, e Thimbleweed Park nasce per essere istantaneamente tale. Ci sono modi per implementare le stesse meccaniche in punta di mouse, la versione rimasterizzata di Day of the Tentacle è un eccellente esempio di come si possa presentare lo SCUMM in maniera più moderna e senza scontentare nessuno; ma a Ron Gilbert questo semplicemente non interessava.

 

 

La seconda cosa che colpisce è il grado di immersione: ho ricevuto un codice per provare il gioco due settimane prima che uscisse, e spesso mi sono trovato, lontano dal pc, in giro per Roma o a casa facendo altro, a ripensare al mondo di Thimbleweed Park. È una cosa abbastanza comune mentre si legge un romanzo, o si segue una serie televisiva: con la mente si torna all’improvviso al punto in cui si era rimasti e non si vede l’ora di aprire il libro per iniziare un nuovo capitolo, o di riprendere la visione con un nuovo episodio. Ma quante volte accade la stessa cosa con un videogioco? Il merito qui è di un game design che rasenta la perfezione.

Thimbleweed Park inizia permettendo immediatamente al giocatore di controllare i due agenti dell’FBI, passando in qualsiasi momento dall’uno all’altro. Mentre si raccolgono i primi indizi sul caso di omicidio, si iniziano a conoscere meglio altri personaggi attraverso dei flashback; qualcuno sta raccontando qualcosa a proposito di un possibile sospettato, e ci si ritrova in quella che è in sostanza una mini avventura in cui si controlla proprio il personaggio di cui si stava parlando e si devono risolvere pochi enigmi in scenari limitati con un altrettanto esiguo set di oggetti a disposizione. Questo aiuta moltissimo a entrare nel mondo del gioco, è la perfetta introduzione sia alla storia di Thimbleweed Park che a quella individuale dei personaggi giocabili, che diventano presto ben cinque (uno di loro, davvero unico nel suo genere, ha addirittura una sua interfaccia SCUMM personalizzata), e le cose si fanno più complicate; nel giocare, sarà utile tenere sempre presente che un personaggio potrebbe fare alcune cose che un altro si rifiuta di fare, o avere conoscenze di cui un altro è privo, o ancora, che un oggetto apparentemente introvabile potrebbe diventare comodamente disponibile proseguendo l’avventura con un diverso protagonista.

 

 

Come già accadeva in Monkey Island 2: LeChuck’s Revenge, qui si può scegliere tra due livelli di difficoltà diversi: la modalità casual presenta meno enigmi e consente di arrivare al finale (incredibile e metafisico) del gioco senza affrontare quelli più complessi. In ogni caso, anche affrontando l’esperienza completa, nessun puzzle ha una soluzione che appare sleale o illogica, al contrario di quanto accadeva in diversi titoli storici. Molti espedienti  dimostrano inoltre una notevole consapevolezza delle imperfezioni che possono rivelarsi più noiose per il giocatore, e le risolvono con naturalezza: un diario con gli obiettivi per ciascun personaggio, una mappa per spostarsi velocemente da uno scenario all’altro, dialoghi spesso ricchi di indizi utili sono rifiniture di gran classe ad uno schema super collaudato. A proposito dei dialoghi: anche qui sono molto divertenti, pieni di riferimenti ad altri classici LucasArts, a volte persino rivolti al giocatore stesso.

 

 

Thimbleweed Park è solido, curatissimo e pieno di sorprese: ci sono un paio di enormi biblioteche piene di libri fantastici, tre personaggi che con ogni evidenza sono la stessa persona, anche se lo negano, strani macchinari che funzionano grazie a delle valvole, inoltre si possono riconoscere alcuni elementi autobiografici inseriti da Ron Gilbert, come Graphics BASIC, insomma, in qualsiasi momento ci si può trovare di fronte a una trovata inaspettata e irresistibile; sarebbe un peccato rovinarsi l’esperienza di gioco consultando i walkthrough o le classiche soluzioni. In un titolo di azione infatti si può guardare un video di qualcuno che conosce la giusta strategia per completare un livello e si avrà comunque una certa soddisfazione nell’eseguire correttamente quelle indicazioni. In un’avventura, una volta che si conosce la soluzione di un enigma, il divertimento è finito; l’esecuzione è meccanica e non dà alcun piacere. Il mio consiglio, perciò, nelle occasioni in cui vi trovate bloccati senza alcuna idea su come proseguire, è di consultare una guida che dia, almeno inizialmente, solamente dei suggerimenti. Ne trovate una ottima e completa qui.

 

Thimbleweed Park è disponibile su Windows, Mac, Linux e Xbox One, ed è stato provato sulla più recente versione LTS di Ubuntu.

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Dalla parte della polizia

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Il mondo dell’intrattenimento non manca di offrire occasioni per identificarsi con le forze dell’ordine: basta accendere la televisione a qualsiasi ora del giorno o della notte per imbattersi in detective, commissari, carabinieri, poliziotti e agenti speciali protagonisti di quel film o di quella serie tv. Sono di gran lunga la categoria più rappresentata. In ambito videoludico, invece, tutto il contrario: nei videogiochi i poliziotti sono quasi sempre al massimo degli antagonisti. 

Quando giochiamo, in effetti, parte del divertimento sta nel fare cose che nella vita reale non faremo (o non faremmo) mai, e se alcune volte si tratta di esperienze rare e improbabili come allenare una squadra in Premier League o costruire una città da zero, o di esperienze impossibili come riunire il Giappone feudale e diventare lo Shogun, molte altre volte si tratta di esperienze criminali; e in questi ultimi casi le forze dell’ordine sono semplicemente l’ostacolo più naturale da inserire nel gioco come elemento di sfida per il giocatore che deve raggiungere un determinato obiettivo, sia esso superare ogni limite di velocità in Need for Speed, completare una rapina in Payday, o commettere un omicidio in Grand Theft Auto. 

Eppure se c’è una cosa che Georges Simenon, Arthur Conan Doyle e Rai Fiction ci hanno insegnato, è che l’attività investigativa è un fenomenale meccanismo generatore di storie; e per fortuna negli ultimi mesi sono usciti un paio di videogiochi davvero interessanti che vanno ad esplorare questo territorio troppo trascurato, facendoci giocare, per una volta, dalla parte della polizia.

This Is The Police è allo stesso tempo un gioco d’avventura e un gestionale. Sviluppato da Weappy Studio, piccola software house bielorussa, ci fa vestire i panni di Jack Boyd, capo della polizia della città di Freeburg. Dato che il pensionamento è alle porte, negli ultimi sei mesi di servizio il suo principale pensiero, vale a dire l’obiettivo del giocatore, sarà quello di mettere da parte una ricca buonuscita personale da mezzo milione di dollari.

 

 

Nel frattempo dovrà gestire la propria squadra di poliziotti e di detective, risolvere casi raccogliendo prove e conducendo interrogatori, rispondere alle chiamate di emergenza che provengono da ogni parte della città, scegliere quali agenti mandare sul posto, e quando fornire rinforzi, o quando chiudere un occhio per fare un piacere a qualcuno, cercando di non compromettere del tutto i propri rapporti con il potere politico e con la mafia. Lo scenario, si vede subito, è ricco di zone d’ombra e rimanda più a The Wire che a Il Maresciallo Rocca.

La storia procede di giorno in giorno e viene narrata con uno stile da graphic novel che visivamente ben si lega al design dell’interfaccia di gioco. Il tocco di classe? C’è anche la possibilità di collezionare dischi, e di usarli come colonna sonora della propria giornata in ufficio; il tutto grazie ad un catalogo che permette di scegliere quali album acquistare e persino quali future uscite prenotare.

Una volta completata la storia diventa disponibile una modalità sandbox, senza alcun limite di tempo, con nuovi crimini e infiniti casi per i detective; la sfida è restare a capo della polizia il più a lungo possibile, con un livello di difficoltà in costante crescita. La longevità del gioco aumenta così in maniera considerevole. 

Beat Cop, sviluppato dallo studio indipendente polacco Pixel Crow, pesca invece a piene mani dall’immaginario anni ‘80 di Miami Vice, e ci mette nei panni di un poliziotto di quartiere, figura mitologica berlusconiana ma realtà molto comune oltreoceano, nel nostro caso un ex detective accusato di aver fatto sparire dei diamanti dalla casa di un senatore e perciò sbattuto, nella migliore tradizione punitiva, non a dirigere il traffico ma quasi: a pattugliare i marciapiedi di New York.

 

 

Anche in questo caso la storia procede di giorno in giorno: il nostro compito principale sarà spesso solamente quello di fare un certo numero di multe, ma dovremo anche pensare a come riscattare la nostra reputazione (oppure no), e in ogni caso godremo di una notevole libertà, e quindi ad esempio potremo fare multe legittime, fare multe a caso, cancellare multe in cambio di mazzette, o anche passare il tempo a chiacchierare con i negozianti e non fare alcuna multa, subendone le conseguenze.

 

 

La gestione del tempo a disposizione qui è al centro del game design, come gli sviluppatori hanno spiegato a Kotaku qualche tempo fa; la strada trabocca di vita in pixel art, incontriamo persone, succedono cose, e non sarà mai possibile seguire ogni pista, intervenire in ciascun evento, arrestare qualsiasi criminale e verificare tutte le attività sospette, e questo garantisce un certo margine di rigiocabilità. Bisognerà sempre fare delle scelte e perdersi qualcosa, proprio come nella vita vera.

 

This Is The Police e Beat Cop sono disponibili per piattaforme Windows, Mac e Linux, e sono stati provati sulla più recente versione LTS di Ubuntu.

 

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Personaggi storici e come inserirli nei videogiochi

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La storia nei videogiochi è sempre in grande scala: che si tratti di seguire quasi per intero il percorso dell’umanità nella serie Civilization, o di concentrarsi su periodi particolari, come il medioevo in Crusader Kings, per non parlare delle ricostruzioni più o meno fedeli di ogni tipo di unità militare aerea, navale o di terra nei giochi di guerra ambientati durante il secondo conflitto mondiale, l’inquadratura è per così dire spesso un campo lunghissimo, quasi mai una mezza figura o un primo piano. Eppure non v’è di certo carenza di singole personalità a cui fare riferimento, tra sovrani, papi, condottieri, mistici, pittori, scrittori, compositori, scienziati, inventori. Mi sono proposto allora di andare alla ricerca di approcci di questo genere, in cui si gioca con la popolarità e le caratteristiche di personaggi storici conosciuti da chiunque o famosi perlomeno nel loro campo, e ho selezionato tre titoli abbastanza recenti, che trovate qui in ordine di crescente coinvolgimento dell’elemento storico nel gameplay.

 

 

Partiamo dunque da personalità passate alla storia in cui ci si imbatte quasi per caso: in una delle migliori avventure uscite negli ultimi tempi, The Darkside Detective, troviamo ad esempio i fantasmi di Poe e Lovecraft che litigano tra loro in una biblioteca infestata. Questo avviene nel secondo dei sei casi su cui devono investigare il detective McQueen, vale a dire il giocatore, e la sua fidata spalla Dooley; due personaggi ben caratterizzati, a cui è difficile non affezionarsi, che danno vita a dialoghi spesso irresistibili, anche perché Dooley, un po’ fifone, un po’ pigro e un po’ sinceramente disinteressato alle indagini, è pure un imperterrito complottista sempre pronto a dubitare dell’autorità, incapace oltretutto di rendersi conto di come, in qualità di poliziotto, l’autorità lui in realtà la rappresenti.

Tutta l’avventura, breve (l’ho finita in meno di due ore) e abbastanza facile (non ho mai avuto bisogno di consultare qualche guida), gode di un livello di scrittura decisamente superiore alla media, e presenta situazioni e npc sempre molto divertenti: due in particolare, il giornalista e il prete surfista, son davvero notevoli. Indovinata è poi la scelta di inserire alcuni semplici puzzle da risolvere, veri e propri minigiochi che diversificano il gameplay rispetto al tradizionale uso degli oggetti sugli scenari. Molto efficace si rivela anche l’idea di presentare separatamente diversi casi, non collegati tra loro, che potrebbero essere altrettanti episodi autoconclusivi di una serie televisiva che segua il modello del mostro-della-settimana. Sono proprio le serie tv, in particolare X-Files e Twin Peaks, come accadeva già in Thimbleweed Park, a rappresentare le maggiori fonti di ispirazione e a venire più volte omaggiate; l’idea stessa del darkside poi non è lontana da quella di upside down vista in Stranger Things.

Una menzione è poi doverosa per la colonna sonora realizzata da Ben Prunty, già autore di quella di FTL: Faster Than Light, che qui davvero riesce a incidere in modo sostanziale sulle atmosfere del gioco. I motivi, debitori dello stile di John Carpenter, restano legati a doppio filo a The Darkside Detective: troppo adatti a questo gioco per immaginarlo accompagnato da musiche diverse, troppo memorabili per ascoltare in seguito queste tracce senza ripensare alle incredibili esperienze di McQueen e Dooley.

 

 

Un espediente piuttosto tradizionale per inserire personaggi storici in una narrazione è quello del viaggio nel passato, che consente inoltre di rappresentare liberamente epoche e ambientazioni differenti senza alcun vincolo di coesione: è quello che accade in un’altra avventura, Kelvin and the Infamous Machine.

L’antefatto è molto semplice: il solito scienziato pazzo costruisce una macchina del tempo, ma quando la presenta alla comunità scientifica viene preso in giro e ridicolizzato perché la sua invenzione somiglia decisamente ad una cabina per la doccia. Per vendicarsi, lo scienziato inizia a viaggiare nel tempo e nel suo delirio megalomane impedisce a Ludwig van Beethoven, Isaac Newton e Leonardo da Vinci di esprimere il proprio genio, sostituendosi a loro e attribuendosi ogni merito. Peccato che tutto ciò stia finendo col distruggere la fibra stessa del tempo: Kelvin, l’imbranato assistente dello scienziato, dovrà rimettere a posto le cose, aiutando questi grandi personaggi a tornare padroni delle loro opere e del loro ruolo nella storia e, contestualmente, salvando il mondo.

Le premesse sono quindi quelle demenziali tipiche di tanti titoli anni ‘90 ormai classici: in particolare, non si può fare a meno di pensare, parlando di avventure e di viaggi nel tempo, a Day of the Tentacle e all’incontro con i padri fondatori degli Stati Uniti d’America. Qui i personaggi storici sono ancora più centrali nella narrazione, anche se è impossibile parlare del modo in cui vengono caratterizzati senza rovinare un bel po’ di sorprese a chi ancora non ci avesse giocato. Per farvi capire la gravità delle situazioni che vi troverete ad affrontare, vi dico solamente che incontrerete un Isaac Newton per nulla incuriosito dalla gravità e invece super concentrato sulla stesura di una fan fiction.

 

 

Naturalmente, il massimo grado di inserimento possibile per un personaggio storico in un videogioco è il ruolo giocabile del protagonista: The Curious Expedition, un titolo rivolto a tutti coloro che amano l’epoca delle grandi esplorazioni geografiche, permette di impersonare diversi esimi naturalisti e antropologi, come Charles Darwin, Richard Burton, Frederick Selous, Mary Kingsley, Isabella Bird e — attenzione — Johan Huizinga, l’autore di Homo Ludens, il saggio da cui la rubrica che state leggendo prende il nome (cinque alto agli sviluppatori). Se la vostra parte preferita di L’arte di collezionare mosche è quella dedicata alla vita di René Malaise, se avete consumato le pagine di Alla conquista di Lhasa, questo sarà per voi il gioco definitivo.

Lo scopo è dunque organizzare una spedizione, scegliere i compagni di viaggio e l’equipaggiamento ottimali e partire all’avventura verso le ancora inesplorate terre del Sudamerica, dell’Africa o dell’Artico, sperando di riuscire a riportare a casa — in Inghilterra — sia la pelle che un ricco bottino di preziosi ed esotici manufatti da donare al British Museum in cambio di gloria imperitura; il giocatore è in competizione con altri illustri esploratori: la condizione di vittoria è tornare in patria con più materiale di quanto ne abbiano raccolto i concorrenti.

La scelta tra vari personaggi è ovviamente funzionale al gameplay: ognuno ha determinate qualità che garantiscono relativi vantaggi e svantaggi da comparare e da tenere bene a mente, dato che, per quanto si sia ben preparata la propria spedizione, ad aspettarvi negli infiniti mondi generati dal gioco, a frapporsi tra voi e la conclusione di ogni esplorazione (che avviene una volta raggiunta la piramide dorata sempre collocata da qualche parte sulla mappa), ci saranno inevitabilmente l’imprevisto e la fatalità: bisognerà vedersela con una fauna feroce, sarà necessario scendere a patti con le popolazioni native, contrattare baratti e ottenere ospitalità nei villaggi o nelle missioni; si scopriranno antiche rovine da depredare senza ritegno, protette però dalle arcane, incontrollabili e vendicative forze che vi risiedono fin dalla notte dei tempi; soprattutto, ci sarà da tenere in forma il proprio gruppo, che necessita di cibo e di riposo, con il temibile indice della sanità mentale sempre pronto a crollare sotto i vostri occhi e a causare misteriose sparizioni, cleptomania, alcolismo, cannibalismo e altre situazioni spiacevoli, soprattutto se vi trovate nelle più remote regioni di un continente sconosciuto.

 

The Darkside Detective, Kelvin and the Infamous Machine e The Curious Expedition sono disponibili per piattaforme Windows, Mac e Linux, e sono stati provati sulla più recente versione LTS di Ubuntu.

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Allenare la mente con i videogiochi

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Il sudoku, le parole crociate, quindi La settimana enigmistica e un buon numero di riviste simili, e poi rubriche come Scherzi da Peres su Linus, ma anche libri come quelli di Martin Gardner dedicati agli indovinelli matematici: sono soprattutto edicole e librerie a fornire materiale utile, come si usa dire, ad “allenare la mente”;  i videogiochi invece vengono visti soprattutto come strumenti per allenare i riflessi o la coordinazione. Eppure nel settore videoludico non mancano proposte indirizzate a chi voglia cimentarsi in sfide del genere; se anche nel divertimento vi piace trovare la richiesta di un reale impegno intellettivo, attenzione ai titoli che presentiamo in questa nuova puntata di Homo Ludens, perché sono in grado di mettere alla prova il vostro ingegno e di procurarvi più di qualche serio grattacapo.

 

 

Iniziamo da Cosmic Express, nuova creazione degli stessi sviluppatori già responsabili dell’incantevole A Good Snowman Is Hard To Build. Ogni livello qui è una colonia spaziale protetta da una campana di vetro che ha una sola entrata e uno o più fori di uscita: il giocatore ci arriva alla guida di un trenino (il cui pilota risulterà familiare a chi conosca il titolo precedente) e deve disegnare su una griglia un percorso che consenta di far salire a bordo alcuni simpatici alieni, per poi farli scendere in corrispondenza di certe strane scatole pronte a trasformarsi nelle loro abitazioni. Le varie colonie sono poi raggruppate in costellazioni, ognuna delle quali ha livelli di varia difficoltà; in questo modo prima ci si impadronisce delle meccaniche di gioco e poi si comincia a mettere a frutto quanto imparato in situazioni via via sempre più complesse. A rendere più difficili le cose interverrà poi l’introduzione di nuovi elementi come teletrasporti o creature gelatinose che renderanno inservibili ad altri alieni i vagoni sui quali solo salite, determinando così ordini di priorità con cui le cose possono iniziare a farsi davvero complicate. Non ci si illuda quindi di fronte alla grafica coloratissima e ai personaggi adorabili: la difficoltà di Cosmic Express è graduata con intelligenza e va da sfide elementari, poco più che tutorial, fino a livelli di sfida estremi e proibitivi, laddove la disposizione degli alieni da raccogliere e delle scatole verso cui condurli è infida, e la sola soluzione esistente è tanto intuitiva e lapalissiana a posteriori quanto impossibile da identificare senza aver prima proceduto per tentativi ed errori, arrivando persino a dubitare della sua esistenza.

 

 

Se avendo a che fare con colonie nello spazio ci si può aspettare qualche briga, quanto può essere difficile uscire da una piscina, o da un fiume o dal mare? In fin dei conti, non molto di meno, se abbiamo a che fare con Swim Out: un gioco molto elegante, sia a livello grafico che di concetto, sviluppato a Metz, in Francia, dal duo marito e moglie che ha dato vita a Lozange Lab. Qui, nei panni di un nuotatore, bisognerà guadagnare l’uscita dall’acqua facendo bene attenzione a non scontrarsi con altri bagnanti, e gente che prende il sole sui materassini, o sta seduta a bordo vasca, o è pronta a tuffarsi, e insomma elementi di disturbo di ogni risma: il giocatore dovrà osservare con attenzione i pattern seguiti dai vari ostacoli e capire di conseguenza quale percorso consenta di attraversare il livello evitando ogni collisione. Il gameplay si diversifica poi grazie alla progressiva introduzione di nuove varianti: i cordoli limitano le nostre possibilità di movimento e i getti d’aria ci fermano per un turno, mentre alcuni oggetti, come palloni e salvagenti da tirare, al contrario ci vengono in soccorso e possono essere usati per ottenere alcuni vantaggi, talvolta essenziali. La presentazione minimale, i colori tenui, l’assenza di musica e l’abbondanza di suoni estivi e acquatici contribuiscono a generare un’atmosfera rilassante che rende impossibile perdere la pazienza anche quando le cose si fanno più difficili.

 

 

Il terzo gioco di cui parliamo è uscito ormai un anno fa ma sembra il titolo perfetto da affrontare in questi giorni, con lo spirito di Halloween non ancora del tutto sopito: Slayaway Camp mette infatti il giocatore nei panni di un pazzo omicida il cui obiettivo è uccidere vari teenager che si trovano in campeggio. I livelli vengono presentati come spezzoni di film immaginari a cui è possibile accedere avanzando nel gioco, che si rivela essere così anche una parodia e un omaggio agli horror movie degli anni ‘80, con musiche e ambientazioni ed effetti sonori ad hoc, sempre in bilico tra distacco ironico e immersione, e diverse trovate poi sorprendentemente riuscite. Il livello di sfida è inizialmente molto basso, ma anche qui le cose non tardano a farsi più complicate: tale è la follia omicida del nostro alter ego che ogni volta che si sposta in una direzione la segue finché non incontra un ostacolo: perciò se non si pianificano con cura i propri movimenti si finisce facilmente per restare bloccati, non potendo più raggiungere un bersaglio o l’uscita dal livello; ci sono inoltre trappole mortali da evitare o di cui approfittare, così come caselle sorvegliate dalla polizia, e scenari da completare in un numero prefissato di mosse. Bisognerà dunque sfruttare tutte le tattiche a nostra disposizione: avvicinare una vittima per farla scappare, far squillare un telefono per farle cambiare posizione, rovesciare oggetti per modificare le proprie possibilità di movimento. Slayaway Camp offre inoltre una modalità meno truculenta, priva di sangue e di scene splatter,  anche se c’è da dire che la violenza del gioco è già stemperata dal fatto che i protagonisti siano tutti dei pupazzetti cubici.

 

Cosmic Express, Swim Out e Slayaway Camp sono disponibili per Windows, Mac e Linux, e sono stati provati su Manjaro; se preferite lo smartphone, li trovate tutti e tre anche su Apple Store e Google Play.

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Giochi nuovi per vecchi nostalgici

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Il passato, non è più una novità, da diversi anni sta tenendo in pugno il presente: tra remake e sequel cinematografici, dischi raccolti in cofanetti vari o ristampati in edizioni deluxe, è chiaro ormai come l’industria dell’intrattenimento consideri la nostalgia una miniera d’oro. Se basta fare leva sui ricordi per produrre contenuti di sicuro successo, perché mai rischiare investendo in qualcosa di nuovo?

Neanche il mondo videoludico è rimasto esente da questa tendenza, come dimostrano i trionfali ritorni di due console Nintendo classiche come NES e SNES, o le rimasterizzazioni delle avventure grafiche di una volta di cui abbiamo già parlato quando ci siamo occupati di Thimbleweed Park; o ancora, il numero sempre maggiore di canali Twitch dedicati al retrogaming, come Kenobisboch. Il cerchio poi si chiude se pensiamo alla recente operazione di Netflix, che ha scelto di accompagnare il lancio della seconda stagione di Stranger Things, serie nostalgica per eccellenza, pubblicando su Apple Store e Google Play un gioco a tema per tablet e smartphone, con grafica rigorosamente in stile 8-bit.

Il segreto sta nel riprendere formule vincenti mai davvero invecchiate, dare loro una nuova veste e tornare a proporle ai giocatori senza troppi stravolgimenti: non solo hanno già dimostrato di funzionare perfettamente, ma ora una patina di ricordi le ammanta e le rende irresistibili anche dal punto di vista sentimentale.

 

 

È quanto hanno fatto ad esempio gli sviluppatori dello studio parigino Lizardcube, che quest’estate hanno pubblicato Wonder Boy: The Dragon’s Trap, nuova versione del gioco uscito nel 1989 per Sega Master System. La storia inizia dove finiva il titolo precedente della serie: Wonder Boy si trova in un castello e, al culmine della sua impresa eroica, è armato fino ai denti e quasi invulnerabile, uccide il boss finale, un drago, e viene però a questo punto colpito da una maledizione, che lo trasforma in lucertola.

Qui comincia la nuova avventura, in cui il nostro eroe dovrà cercare di tornare alla forma umana passando per diverse altre mutazioni, ognuna delle quali gli garantirà nuove abilità, che gli consentiranno maggiori possibilità di esplorazione nel mondo del gioco. La struttura infatti non è lineare: quasi fosse un prototipo di open-world, Wonder Boy: The Dragon’s Trap non è diviso in livelli, e gli ostacoli che impediscono di avanzare nel gioco smettono di diventare tali non appena si acquisisce la capacità di nuotare, di camminare in verticale su alcune pareti, di volare, e così via.

Il game design era dunque piuttosto originale anche all’epoca, e i ragazzi di Lizardcube hanno fatto bene a non apportare alcuna modifica in questo senso: si sono occupati invece di rendere più moderna la grafica con nuovi asset, nuove animazioni e sfondi disegnati a mano, oltre che di realizzare una nuova colonna sonora. In molti apprezzeranno poi la possibilità di passare in qualsiasi momento dalla versione HD a quella a 8-bit, e dalle nuove musiche a quelle originali, e di godersi dunque il gioco con tutte e quattro le possibili combinazioni di grafica e sonoro.

 

 

Si sono spinti ancora più indietro nel tempo gli sviluppatori di Fabraz realizzando Slime-San: si tratta di un titolo che sarebbe stato bene anche in un vecchio cabinato da sala giochi, nel quale si controlla una creatura gelatinosa e la si deve aiutare a uscire indenne da un centinaio di livelli pieni di qualsiasi genere di calamità; essere uno slime ovviamente comporta la capacità di appiccicarsi a qualsiasi cosa e quindi di spostarsi rapidamente anche in verticale, e la velocità conta molto, perché ogni quadro deve essere completato entro un limite di tempo.

Il gameplay è frenetico, la risposta ai comandi perfetta come esige ogni titolo di questo tipo, la colonna sonora chiptune è l’accompagnamento ideale, e si torna insomma proprio ai concetti base e alle origini della storia dei videogiochi, quando l’unica cosa che contava era il divertimento. Tra un livello e l’altro è possibile girovagare in una città per fare acquisti e modificare l’aspetto estetico del proprio slime, oppure per cimentarsi con vari mini-giochi.

La tavolozza dei colori utilizzata è inoltre ridotta al minimo, e questi mondi di solo bianco, blu, verde e viola ricorderanno di certo ai meno giovani i titoli con cui si giocava ai tempi in cui le schede grafiche utilizzavano lo standard CGA, mentre per le nuove generazioni invece immagino valga soprattutto il fascino che è tornato ad avere lo slime e tutto ciò che è gelatinoso.

 

 

Lo studio indipendente Pocketwatch Games, già responsabile del fortunato Monaco, si rivolge invece agli appassionati di un genere ormai quasi caduto nel dimenticatoio come quello degli RTS, gli strategici in tempo reale, con il suo nuovo titolo, Tooth And Tail. Lo si sarebbe potuto collegare a Fantastic Mr. Fox di Wes Anderson, se solo quest’ultimo fosse stato un film di guerra, perché qui a fronteggiarsi ci sono scoiattoli, gufi, volpi, camaleonti, falchi, puzzole e via dicendo.

Il giocatore non controlla direttamente le proprie unità, ma impersona un condottiero che ha diversi compiti: costruire fattorie per avere sempre una buona scorta di cibo, spendere questo cibo per creare le tane dalle quali verranno fuori le proprie armate, e guidare queste ultime sul campo di battaglia, dove il nemico può essere sconfitto sia distruggendo tutte le sue fattorie sia prendendolo per fame, impedendogli cioè di costruirne di nuove. Le fattorie infatti dopo alcuni minuti smettono di produrre cibo, e si è presto costretti a muoversi lontano dalla propria base iniziale: questo fa sì che le partite a Tooth and Tail siano sempre piuttosto rapide, e le sfide online, che sono il cuore del gioco, spesso infatti si concludono in meno di dieci minuti.

Sono finiti dunque i tempi in cui bisognava portare viveri e bevande vicino al PC prima di iniziare una sessione di Starcraft, Age of Empires o Command & Conquer. Ma sarebbe un errore pensare che sia un gioco semplice. La generazione casuale delle mappe e il fatto che in multiplayer si debba comporre il proprio set di unità scegliendone sei tra le sedici disponibili rendono le partite di Tooth and Tail sempre diverse e imprevedibili, dove vince di solito chi è più capace di interpretare le situazioni, di adattarsi alla strategia dell’avversario e di prendere le decisioni giuste nel minor tempo possibile. La sua straordinaria profondità gli è già valsa una candidatura a miglior gioco strategico dell’anno, al fianco di produzioni che hanno alle spalle investimenti milionari.

 

Wonder Boy: Dragon’s Trap, Slime-San e Tooth and Tail sono disponibili su PC per sistemi Windows, Mac e Linux, e sono stati provati su Manjaro. Tutti e tre i giochi hanno inoltre alcune versioni console, per cui se siete in possesso di PlayStation 4, Xbox One o Nintendo Switch date un’occhiata ai rispettivi siti.

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«Sembra che le cose non sempre vadano nella direzione che ti aspetti» — Intervista ai creatori di Owlboy

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Ho passato gli ultimi mesi chiedendomi quale fosse il modo migliore per chiudere questo primo anno di Homo Ludens. Ho pensato a un listone o a un qualche tipo di riassunto dell’anno videoludico; poi mi è sembrata invece una buona idea proporre un secondo articolo monografico, dopo quello su Thimbleweed Park, dedicato a un altro gioco che mi fosse sembrato particolarmente importante: la scelta è caduta su Owlboy. Pubblicato per la prima volta nel novembre del 2016, è a tutti gli effetti un titolo di quest’anno, di gennaio per la precisione, dal punto di vista di questa rubrica, dove i giochi vengono provati su Linux. Non è particolarmente lungo né particolarmente difficile, e lo dimostra il fatto che l’ho finito in 11 ore. Però è particolarmente bello, oltre che divertente, originale e a suo modo innovativo.

È la storia di Otus, un giovane gufo muto: nonostante abbia la capacità di volare non si è mai allontanato dal suo villaggio, Vellie, e lì conduce una vita tranquilla, quando una banda di pirati comincia a seminare morte e distruzione nella vicina città di Advent e nelle zone circostanti. Aiutato dal suo amico Geddy, e poi da altri personaggi, Otus dovrà sventare la minaccia costituita dai pirati, scoprendo al tempo stesso qualcosa su di sé e sulla sua gente. Owlboy, frutto di ben nove anni di lavoro, è un gioco perfettamente riuscito sotto ogni aspetto: pixel art, game design, narrazione. Ho fatto due chiacchiere con i ragazzi dello studio D-Pad, i creatori di questa meraviglia, e non ne è uscito fuori solamente un bel ritratto di Owlboy, dei suoi contenuti e del modo in cui è stato realizzato: abbiamo finito col parlare anche di cose che non mi sarei minimamente aspettato.

 

 

Iniziamo con le presentazioni. Quale team ha dato vita a Owlboy e allo studio D-Pad?

Simon: Mi chiamo Simon. Sono co-CEO e direttore artistico di D-Pad. Ho ideato la prima bozza di Owlboy e ne ho diretto lo sviluppo sia come pixel artist che come responsabile del progetto.

Jo-Remi: Mi chiamo Jo e seguo e coordino giorno per giorno le attività di D-Pad. Mi occupo del settore business, ma anche del gameplay, del design e di alcune parti dell’impianto narrativo in Owlboy.

Adrian: Io sono Andrian e il mio focus è sul design e sulla struttura dei livelli, e poi su qualsiasi altra cosa di cui mi possa occupare.

Henrik: Io sono Henrik, mi sono occupato della programmazione e della scrittura della storia di Owlboy.

Come vi è venuto in mente di basare il gameplay sulla capacità di volare? E come mai avete scelto come protagonista proprio un gufo? Un gufo muto, per giunta.

Simon: L’idea iniziale è stata ispirata da alcuni esperimenti mentali basati su Kid Icarus e Super Mario Bros. 3 per NES. In entrambi questi titoli si gioca con un protagonista che di base ha una qualche capacità di volare. Pit può utilizzare un oggetto per fluttuare, ma non usa mai le sue ali attivamente, e Mario può librarsi in aria usando i costumi Racoon e Tanooki, ma solo in alcune occasioni.

Era un pensiero accattivante quello di avere un mondo che si sviluppa in verticale come quello di Kid Icarus, pieno di stanze segrete e dungeon, ma fare in modo di trasformare l’abilità di Mario nella capacità di sbattere le proprie ali e andare a esplorare gli scenari in altezza. All’inizio lo scopo doveva essere trovare isole nascoste nel cielo. Magari isole abitate da persone che parlano una lingua sconosciuta. Questo concept alla fine ha posto le basi per un protagonista letteralmente muto, che non può comunicare a parole e deve trovare altri mezzi per farlo.

Il gufo non è stata la prima cosa che mi è venuta in mente. Credo che un alieno, un insetto volante e un cane alato fossero i più seri candidati al ruolo di protagonista finché non ho abbozzato un gufo a caso, che aveva un mantello anziché le ali. Questo personaggio ha finito col diventare tutto ciò che è Owlboy.

 

 

Owlboy secondo me somiglia molto a ciò che sarebbe stato Laputa: Castle In The Sky se fosse stato un gioco Nintendo invece che un film d’animazione. Amate le opere di Miyazaki? Quali sono state le vostre fonti di ispirazione?

Simon: Adoro i film di Miyazaki, ma non ne ho visti tanti purtroppo. Inaspettatamente, Owlboy non è stato influenzato per nulla dalle sue opere, dato che fino a qualche tempo fa conoscevo ben poco del suo lavoro. Anche se riesco a trarre ispirazione un po’ ovunque, non si può negare che la serie di Legend of Zelda abbia avuto un discreto impatto sullo sviluppo. Le sagome semplici ma efficaci dei personaggi di Windwaker. La malinconia e i significati reconditi di Majora’s Mask. Per non parlare delle belle ambientazioni e dell’uso del colore. Ma di certo le influenze non si esauriscono con Zelda. Potrei passare un’intera giornata a elencare giochi che sono stati d’ispirazione. La serie di Megaman, Breath of Fire IV, Chrono Trigger e tanti altri titoli che giocavamo in quei giorni. Ma altre cose ancora sono venute fuori viaggiando. Molte delle mie prime bozze erano solamente interpretazioni di posti in cui ero stato. Si sono accumulate tante cose diverse nel corso di nove anni.

Il gameplay mi sembra avere caratteristiche RPG, perché presto si forma una squadra di personaggi; ma Owlboy resta comunque fedele ai princìpi dei classici platform 2D, per quanto poi possa esserlo un gioco in cui si vola: i diversi compagni di viaggio si usano come se si trattasse di equipaggiamenti per combattere, ognuno portando con sé un’arma diversa utile a scopi diversi. È una trovata notevole. Come ci siete arrivati?

Simon: All’inizio, la principale meccanica del gioco consisteva semplicemente nel prendere oggetti per usarli. Abbiamo poi finito col fare qualche prova per vedere cosa succedeva se si potevano portare in giro i personaggi, e ci è sembrato che fosse divertente poterli controllare separatamente. Prendendo esempio da Megaman X, abbiamo pensato che sarebbe stato interessante permettere al giocatore di switchare tra i vari membri del gruppo durante il gioco. Questo si inseriva anche nella narrazione di un Otus incapace di combattere da solo e bisognoso di fare squadra con altri personaggi che lo aiutassero a superare gli ostacoli nella sua vita.

Di sicuro all’inizio questo sistema era molto meno rifinito di quanto non lo sia adesso. In effetti, teletrasportare i vari membri della squadra per via aerea non era una cosa che avevo preso in considerazione. Avevo pensato a cosa mi sarebbe piaciuto vedere un giorno in un ipotetico sequel, e mi ero appuntato questa soluzione, finché all’improvviso non mi sono reso conto che quella era una cosa da implementare subito.

 

 

Questo aspetto del protagonista merita di essere approfondito. A Otus mancano la gloria e i riconoscimenti dell’eroe, ma anche la colpa e la macchia dell’antieroe, dato che in realtà si trova sempre sulla pista giusta, quella che lo porterà a scoprire come stanno davvero le cose nel mondo di Owlboy. Si tratta insomma di un protagonista positivo nel quale però quasi nessuno ripone troppa fiducia. Come mai avete deciso di raccontare la storia in questo modo?

Jo-Remi: Gran parte della storia è venuta fuori durante lo sviluppo del gioco. Per qualche motivo abbiamo finito con il proiettare sui personaggi quelle che erano le nostre frustrazioni e insicurezze. È stato il risultato di una serie di insuccessi, un anno dopo l’altro. All’inizio avevamo annunciato l’uscita di Owlboy per il 2011. Ogni anno abbiamo rimandato la pubblicazione, e ci siamo sentiti un disastro. Solamente nell’ultimo anno di lavorazione i vari pezzi hanno trovato la loro giusta collocazione. La storia del gioco ha iniziato a riguardare sempre meno la minaccia costituita dai pirati, e molto di più i protagonisti stessi.

Henrik: Faceva parte del progetto di Simon fin dall’inizio che Otus non fosse un eroe, e ci è sembrato che questo desse alla storia una forza che altrimenti non avrebbe avuto. Fa in modo che si crei dell’empatia tra il giocatore e Otus, e prepara il contesto per tutte le altre cose che accadono. I personaggi che hanno creduto in Otus diventano molto più significativi, e al giocatore viene voglia di battere il gioco e di mettersi alla prova. Questo impulso alimenta tutte le sequenze successive.

Gli elementi presi in prestito dai giochi di ruolo e la scarsa fiducia di cui abbiamo appena parlato sono ottimi modi per fare in modo che ci si affezioni alla propria squadra. Il modo in cui la si mette insieme è abbastanza meccanico, ma l’amicizia di Otus con Alphonse, Twig e ovviamente Geddy è qualcosa che si può sentire. Ci sono anche momenti molto divertenti. Come sono nati questi personaggi?

Jo-Remi: Inizialmente, Geddy era l’unico personaggio che sapevamo avrebbe fatto parte della squadra. Tutti gli altri erano opzionali (un po’ come in Baldur’s Gate, dove puoi arrivare alla conclusione del gioco senza incontrare tutti i personaggi giocabili).

Durante lo sviluppo ci siamo resi conto che avremmo dovuto dedicare più tempo alla costruzione dei personaggi, e dare loro più spazio nella storia. Volevamo che venissero avvertiti come parte necessaria della squadra. Abbiamo anche scartato alcuni personaggi giocabili per lavorare su quelli che avevamo già. Kernelle era la più importante. In origine era l’ultima a unirsi al gruppo, armata con un lanciarazzi.

 

 

Ci sono anche alcune scene toccanti in Owlboy. Mentre è sulle tracce dell’antica civiltà dei gufi e delle loro tecnologie, il giocatore si sente come in Tomb Raider o in Indiana Jones, poi arriva la guerra con i pirati e ci si trova di fronte al villaggio di Vellie pieno di rifugiati senza più una casa, e al cimitero pieno di vittime dalla città di Advent, e improvvisamente non sembra più un mondo così fantasy. Mi piacerebbe sapere di più su questa scelta.

Jo-Remi: Questa scelta è stata provocata da un tragico incidente nella mia vita. Stavamo andando a cena da un mio caro amico, in occasione del suo imminente trentesimo compleanno. Era in gran forma, era appena andato a vivere insieme alla sua ragazza, e aveva ancora davanti i suoi giorni migliori! Mentre stavamo per arrivare a casa sua, ha avuto un improvviso collasso, e ha perso la vita a causa di un difetto cardiaco di cui non era a conoscenza. Non ho mai vissuto uno shock più sconvolgente.

Questa cosa mi ha fatto sentire fragile. Sembra che le cose non sempre vadano nella direzione che ti aspetti.

In quel periodo stavano cercando di capire cosa fare con la città di Advent. Volevamo che fosse un posto enorme, pieno di nuovi personaggi, di missioni secondarie e di segreti da scoprire. Advent era un elemento del gioco decisamente promettente.

Invece, ho suggerito a Simon: «E se distruggessimo Advent?».

Con il lancio del gioco abbiamo infine avuto la possibilità di vedere la reazione dei giocatori. Le loro facce scioccate mi hanno fatto capire che il messaggio era arrivato.

Simon: Un aspetto importante del mio approccio al game design è che non bisogna aver paura di fare affrontare al giocatore esperienze difficili o spaventose, perché questo aiuta a farle comprendere meglio, e permette di raccontare storie che altrimenti dovresti scartare. I ragazzi possono gestire argomenti sorprendentemente difficili. La cosa importante è presentare questi argomenti in modo che possano essere compresi. La morte e la perdita in Owlboy sono tangibili perché abbiamo rappresentato chiaramente ciò che è avvenuto e quale impatto ha avuto sui personaggi del mondo del gioco.

Finora non ho visto nessuno considerare i temi più duri che abbiamo affrontato. Anche se sospetto che molti altri sviluppatori inconsciamente si tengano alla larga da questi temi per paura di una reazione negativa da parte del pubblico.

Io penso che la gente possa gestire e capire certi argomenti senza problemi.

Come mai c’è voluto così tanto, nove anni, per finire Owlboy?

Adrian: In parte è stata semplicemente questione di trovare il tempo per sviluppare il gioco, tra studio, lavoro e altre responsabilità. C’è poi voluto del tempo per consolidare alcuni elementi di design, e per capire come affrontare l’organizzazione di un progetto così vasto. Lungo il percorso ogni membro del team ha avuto esperienze di vita che hanno cambiato il tipo di storia che volevamo raccontare e il modo in cui lo avremmo fatto. Il game design si è evoluto anche in questo modo. Ci sono state anche occasioni in cui ci siamo resi conto che alcune parti del gioco non erano abbastanza buone, e non si legavano nel modo giusto con tutto il resto.

Simon: Abbiamo fatto molta autocritica con Owlboy e ci siamo rifiutati di pubblicare qualcosa che non fosse all’altezza. Avendo poca esperienza nel settore e non avendo praticamente ancora mai realizzato un solo gioco, abbiamo dovuto imparare strada facendo. Nelle prime fasi abbiamo creato una parte del gioco alla volta, perciò più avanti nello sviluppo è diventato decisamente difficile assemblare queste diverse aree mantenendo una fluidità e una scorrevolezza. Alla fine tagliare alcune cose si è rivelata una buona scelta, ma onestamente penso che l’unica vera risposta a questa domanda sia che è questo il tempo che ci mettono cinque persone a sviluppare un gioco del genere.

 

 

Come avete sostenuto i costi di sviluppo di Owlboy per un tempo così lungo? Avete fatto altri giochi, siete riusciti a ottenere fondi pubblici, avete smesso di mangiare?

Jo-Remi: La nostra principale fonte di finanziamento sono stati mia madre e mio padre. Non perché ci abbiano dato dei soldi, ma perché ci hanno fornito un posto in cui stare, che era tutto ciò di cui avevamo bisogno per completare il progetto. Dato che Owlboy è un gioco 2D in pixel art, non ha richiesto l’utilizzo di strumenti costosi per portarne avanti lo sviluppo, e il nostro team è sempre stato abbastanza piccolo da contenere le spese. Abbiamo pubblicato Savant: Ascent che ci ha dato una piccola spinta, e ci ha tenuto ben nutriti.

Il vostro team è diviso tra Norvegia, Canada e Stati Uniti: in che modo avete lavorato, come siete riusciti a coordinare lo sviluppo?

Jo-Remi: Abbiamo usato principalmente Skype e le e-mail. È stato difficile restare coordinati, ma ce l’abbiamo fatta finora. Non abbiamo mai avuto un vero ufficio, e la nostra sola possibilità era il lavoro da casa. Le nostre vite fino ad ora sono consistite soprattutto nel lavorare sul gioco e mandarci aggiornamenti sui progressi fatti di tanto in tanto.

Non è facile parlarne senza spoiler sulla fine del gioco, ma pensi che potremo tornare nel mondo di Owlboy in futuro, in un altro gioco?

Simon: Se mai visiteremo ancora il mondo di Otus, sarà in una forma non immediatamente riconoscibile.

 

Owlboy è disponibile su PC per sistemi Windows, Mac e Linux, ed è stato provato su Manjaro. Il 13 febbraio 2018 usciranno anche le versioni per Nintendo Switch, Playstation 4 e Xbox One.

L'articolo «Sembra che le cose non sempre vadano nella direzione che ti aspetti» — Intervista ai creatori di Owlboy sembra essere il primo su Dude Mag.

Tra i ricordi di un uomo in punto di morte: Finding Paradise

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Con questo articolo inizia la nostra collaborazione con Ludica, una nuova rivista online dedicata alla cultura del videogioco. Buona lettura.

 

È uscito a inizio anno Finding Paradise, l’atteso sequel del fortunato To The Moon. Tornano in azione i due dottori Eva Rosalene e Neil Watts, il cui compito sarà ancora una volta quello di provare a esaudire l’ultimo desiderio di un uomo che sta per morire. In che modo? Entrando nella sua mente, esplorando i suoi ricordi e cambiando qualcosa: il passato non si può modificare, ma la memoria sì, e dunque c’è sempre la possibilità di far quantomeno credere a qualcuno di aver vissuto la vita che avrebbe voluto vivere.

In Finding Paradise il giocatore ha ben poco da fare, se non seguire l’evolversi della storia. Per fortuna si tratta di una storia ben scritta: evita facili eccessi di sentimentalismo, regala diversi momenti divertenti, approfondisce molti dei temi che affronta, e spiazza con un plot twist inserito al momento giusto. Proprio come farebbe un buon film, o un bel romanzo. Quella che segue è una chiacchierata con Kan Gao, perché non c’è modo migliore per entrare nel mondo di un videogioco che attraverso le parole di chi l’ha creato.

 

 

Ciao Kan. Puoi presentare te stesso e Freebird Games ai nostri lettori?

Eccoci. Mi chiamo Kan, sono lo sviluppatore e il compositore di Freebird Games, uno studio indie che realizza videogiochi narrativi. Probabilmente siamo conosciuti soprattutto per To The Moon e Finding Paradise, una serie che parla di due dottori che viaggiano attraverso i ricordi dei loro pazienti in punto di morte, allo scopo di esaudirne l’ultimo desiderio.

Il tuo gioco precedente, To The Moon, è stato un grande successo. Te lo aspettavi? Ha cambiato il modo in cui ti vedi all’interno dell’industria dei videogiochi?

No di certo; credo sia saggio non aspettarsi mai niente in un’industria di questo tipo, ci sono un sacco di fattori incontrollabili che possono fare in modo che qualcosa diventi importante. Speravo che la storia riuscisse a colpire, è ovvio, e sono grato del fatto che abbia raggiunto molta più gente di quanto avessi potuto immaginare, portandomi sotto i riflettori in un modo che mi ha costretto ad aprirmi di più come persona.

To The Moon, così come Finding Paradise, ha come protagonisti i dottori Eva Rosalene e Neil Watts, il cui lavoro consiste nel viaggiare tra i ricordi dei loro pazienti. Com’è nata questa idea?

Era un periodo nel quale pensavo molto alla mortalità, in parte per via del fatto che mio nonno era spesso malato e ricoverato in ospedale. Mi sono chiesto se avrei avuto dei rimpianti quando fosse venuto il mio momento, e cosa avrei fatto se avessi avuto la possibilità di tornare indietro e cambiare qualcosa. La storia dal punto di vista dei dottori alla fine ha preso spunto da questo.

Finding Paradise è un gioco a sé stante ma anche un sequel di To The Moon: avevi già previsto che la storia dei due dottori dovesse continuare, raccontando nuovi aspetti del loro lavoro?

Sì. Pensavo che l’impostazione della storia fosse molto adatta per una serie, per il modo in cui ogni singola storia si sviluppa, e ogni volta c’è una completa libertà di andare ad esplorare qualsiasi esperienza uno possa fare nella vita. Finding Paradise e To The Moonsono speciali, in ogni caso, nel senso che contengono le due facce della medaglia rappresentata da questa impostazione in modo profondo, e si completano a vicenda.

 

Fonte: press kit

 

Nel frattempo hai fatto uscire A Bird Story, un breve gioco che ora sembra quasi un’anticipazione di Finding Paradise.

A Bird Story era un gioco non previsto, che ho realizzato più per me stesso che per il pubblico. A volte mi chiedo ancora se avrei dovuto pubblicarlo, ma sono contento che, anche se non tutti, molti lo abbiano apprezzato.

In Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi, Zygmunt Bauman ha scritto: “c’è sempre il sospetto che uno stia vivendo una menzogna o un errore; che qualcosa di essenziale sia stato tralasciato, perso, trascurato, non sperimentato o non esplorato; che un obbligo vitale nei confronti del nostro autentico sé sia stato ignorato, o che alcune occasioni di provare una felicità sconosciuta, completamente diversa da qualunque felicità già sperimentata, non siano state colte in tempo e siano ormai perse per sempre”. Pensi che siamo sempre più ossessionati dai rimorsi, dai rimpianti, dalle possibilità che non abbiamo colto e dalle vite che non abbiamo vissuto? E che in qualche modo i tuoi giochi abbiano intercettato un sentire profondo dei nostri giorni?

Penso che in senso stretto la felicità sia legata alla semplicità, e l’infelicità, insieme ai rimpianti e a tutto ciò che ne deriva, è legata alla complessità. Man mano che il mondo diventa più complicato e pieno di scelte e percorsi che confondono, avremo naturalmente più dubbi e affaticamento decisionale. Anche se Finding Paradise si occupa più direttamente del concetto umano di rimpianto, penso che entrambi i giochi parlino in realtà del desiderio di semplicità in mezzo al caos, qualcosa che forse anche molti di noi stanno cercando.

Tutti i tuoi giochi, anche i tuoi primi lavori, hanno la classica estetica dei RPG: è qualcosa che dipende solamente dal software che usi (RPG Maker XP) o ha anche a che vedere con i tuoi gusti come giocatore?

Probabilmente entrambi, come l’uovo e la gallina. Credo che, dato il tipo di giochi che scrivo, quel motore sia il più efficiente nel produrre qualcosa su cui posso avere un controllo completo, in ogni dettaglio. Inoltre, crescendo, i RPG sono stati il mio genere preferito, anche se non sono mai stato un grande estimatore delle parti di combattimento, ho sempre voluto solamente continuare la storia.

 

Fonte: press kit

 

Ti sei anche occupato della colonna sonora di Finding Paradise: com’è stato scrivere sia la storia che le musiche che la accompagnano? Ti ispirano le colonne sonore dei film? C’è un brano, Kinda Like an Indie French Film, che mi ricorda il lavoro di Jean Constantin per I Quattocento Colpi, e ci sono anche altri riferimenti cinematografici nel gioco.

Mi aiuta molto quando sono bloccato! Quando non sono sicuro di come procedere con i dialoghi, ad esempio, scrivere la musica per quella scena crea l’atmosfera e i dialoghi diventano molto più facili – e vice versa. È come un buffer mentale per far venire fuori qualcosa prima in una lingua diversa, e questo aiuta molto. Per quanto riguarda l’ispirazione, sono un grande fan della musica sia per i film che per i videogiochi, da Yasunori Mitsuda ad Alan Silvestri. Parodie come Kinda Like a Indie French Film e Think Quietly sono sempre divertenti da fare.

I videogiochi si stanno prendendo sempre più spazio come medium adatto anche a raccontare semplicemente una storia. Penso a To The Moon e Finding Paradise, ma anche a Oxenfree, a Life Is Strange, ai titoli di Telltale Games. Sono storie interattive, in cui l’unica cosa che conta è la trama. È sorprendente che un’idea così tradizionale sia stata esplorata molto meno rispetto a concetti di game design avanzati come il roguelike o il tower defense. E tu hai già messo qualche pietra miliare su questo percorso.

Penso sia dovuto al fatto che, anche se è un concetto tradizionale, devia molto da quello che è stato il punto di partenza nell’uso del medium videoludico. E forse una parte della ragione per cui sta diventando sempre più prominente negli ultimi anni è che realizzare giochi è diventato più accessibile – per cui anche chi è più che altro uno scrittore, come me, può cimentarsi, laddove studi più grandi hanno molta meno libertà di prendersi rischi simili. Mi aspetto che il trend continui, in modo tale che i giochi diventino più diversificati senza che questo incida sul mercato dei giochi “tradizionali”, poiché ci sarebbero solo più videogiochi sia in termini di quantità che di tipo. Il che è fantastico, perché forse il nostro tipo preferito deve ancora essere fatto.

Quali sono i tuoi giochi preferiti di sempre, e quali tra le uscite più recenti?

La maggior parte dei miei preferiti sono in realtà giochi di ruolo cinesi con cui sono cresciuto e che non hanno mai avuto un rilascio internazionale, tra cui The Legend of Sword e Fairy and Tun Town. Anche la serie Mass Effect e Dragon Age: Origins sono nella lista. Ho anche avuto un debole per una particolare meccanica multi-personaggio di scelta dei dialoghi presente in Divinity: Original Sin, che dà una bella sensazione del tipo scrivi-la-tua-storia che non è presente nella maggior parte dei giochi di quel genere.

 

Tra i ricordi di un uomo in punto di morte: Finding Paradise è apparso la prima volta su Ludica.

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Rassegna videoludica di maggio

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Homo Ludens torna in una nuova veste con i contributi dei redattori di Ludica, che a turno ci parleranno delle ultime novità che hanno avuto modo di provare su PC e console.

 

Conan Exiles
Funcom

 

A pochi giorni dal lancio ufficiale, Conan Exiles mostra tutti i pregi di una strategia early access sfruttata a dovere. Sfruttando il feedback di chi si cimenta col gioco da più di un anno, la Funcom ha rilasciato una versione ripulita dai bug più fastidiosi e ricostruita da zero nei suoi punti meno convincenti — come il sistema di combattimento, che adesso è più realistico e gratificante. L’intento della casa norvegese era chiaro: accaparrarsi una fetta del settore survival che rimane tra i più gettonati su Steam. Il prodotto finale offre tuttavia qualcosa in più, tra dettagli mutuati dai giochi di ruolo e un’ambientazione affascinante.

Certo, al primo impatto con Conan Exiles ci si assesta sui binari del survival più canonico, sullo stile di Ark: Survival Evolved suoi limiti compresi. Primo fra tutti la ripetitività delle azioni, e un certo senso di disorientamento. Ci ritroviamo crocifissi in mezzo a una landa ostile, nudi come mamma ci ha fatti, con lo stesso Conan il Barbaro che ci libera e ci spinge all’avventura. Da lì esploriamo il deserto (ma più avanti incontreremo giungle, montagne e caverne) e familiarizziamo col sistema di crafting, assai elaborato come tradizione del genere, mentre gli obiettivi di gioco ci guidano attraverso i primi passi: costruire un giaciglio, raccogliere materiali, cacciare animali e allestire un falò per cucinarne la carne, dissetarsi da una fonte, respingere i primi nemici. Nel giro di qualche ora, grazie alla buona curva di apprendimento, saremo in grado di tirare su una casa mentre nella modalità online potremo collaborare con altri giocatori per un’esperienza di gioco più pericolosa, ma anche più ricca. Da subito si intravedono le potenzialità di un titolo che ci porterà, con dedizione, a edificare cittadelle su cui regnare — e in cui ospitare, a seconda dei gusti, templi di devozione, fosse per cannibali, mercati di schiavi o feste orgiastiche.

 

 

Quest’ultimo punto ci introduce al piatto forte di Conan Exiles. Il mondo è fedele alle opere di Robert E. Howard, fin dall’editor iniziale che permette di scegliere tra etnie come Cimmeri o Hyboriani. È truculento, brutale, percorso da una certa vena sensuale — la nudità aiuta, e anche il fatto che le fibre muscolari degli ipertrofici personaggi siano più dettagliate delle espressioni facciali. In una parola, è un mondo vivo. L’unico metro di giudizio è la lotta, e ogni cosa ha il giusto prezzo — anche l’aiuto degli dei, che interverranno tramite un avatar, in cambio di un severo regime di preghiere e sacrifici. Le urla dei nemici e i lamenti delle femmine, per citare proprio Conan il Barbaro: questo è quanto offre Conan Exiles, innestato su una classica ossatura survival.

Andrea Cassini ha provato Conan Exiles su PlayStation 4.

 

Crossing Souls
Fourattic

 

Avete mai desiderato che uno vostri film preferiti tra i classici degli anni ‘80, magari Schegge di follia, I goonies o Stand by me ricordo di un’estate, fosse un videogioco? Beh, se lo fosse stato sarebbe somigliato molto a Crossing Souls, sviluppato dallo studio spagnolo Fourattic e pubblicato da Devolver Digital. Ambientato nel 1986, strapieno di riferimenti e citazioni pop in grado di spezzare il cuore ai più nostalgici, il gioco ci mette nei panni di cinque ragazzi che si trovano a vivere un’incredibile avventura nella loro cittadina californiana.

Unità di luogo dunque, ma con una trovata che moltiplicherà i livelli di realtà (come il sottosopra di Stranger Things o i diversi piani temporali di Dark, giusto per tirare in ballo due produzioni Netflix altrettanto legate a quel decennio). Il grado di immersione è notevole grazie alla splendida colonna sonora e alla cura di ogni dettaglio: i walkie talkie, le biciclette, la scuola, il cinema, la casa sull’albero, la tavola calda, la sala giochi, le bande giovanili — tutti gli elementi tipizzanti dell’immaginario anni ‘80 sono là dove ci si aspetta di trovarli, e danno vita a un mondo vivo, coloratissimo, perfettamente reso su schermo in pixel art.

 

 

Il gioco inizia mettendo insieme un gruppo di amici in una prima fase davvero ben scritta che funziona sia come tutorial che come introduzione al gruppo di personaggi giocabili, tutti molto stereotipati proprio come in quei film teen horror in cui è facile capire chi sarà il primo a fare una brutta fine; qui invece si capisce subito quale funzione potrà avere in seguito ogni personaggio: il protagonista servirà soprattutto in combattimento, l’unica ragazza del gruppo è agile e veloce e dunque molto utile quando sarà necessaria rapidità di esecuzione, l’amico forzuto e un po’ in sovrappeso riuscirà a spostare qualsiasi ostacolo pesante, mentre l’amico nerd e secchione consentirà di risolvere molte situazioni grazie a invenzioni e strumenti tecnologici, e poi c’è il fratellino più piccolo, di cui però è impossibile parlare senza spoiler.

Una volta messa in moto la storia, scopriremo una trama che a livello di gameplay è ben diversificata tra sezioni di combattimento, di puzzle solving e di platforming, e spesso per andare avanti sarà fondamentale capire in quale modo (e in quale ordine) è possibile utilizzare le abilità dei vari personaggi a disposizione per sbloccare l’impasse. Alcune perplessità restano sul lavoro di ottimizzazione, considerati i frequenti casi di framedrop in alcune aree, e sulla precisione dei controlli, che rendono frustranti soprattutto certe sezioni platform, ma non si tratta di difetti in grado di rovinare l’esperienza di gioco.

Gilles Nicoli ha provato Crossing Souls su Manjaro Linux.

 

The Thin Silence
TwoPM Studios

 

Ezra non corre. A mala pena salta — nella lista dei comandi, il tasto è abbinato alla voce “Jump (a little)”, da intendersi letteralmente. Del resto, come dargli colpa: il nostro protagonista è apparentemente responsabile dalla rovina di un’intera nazione, a seguito di una rivoluzione finita male; il peso della responsabilità personale e delle perdite subite lo hanno gettato in una depressione profonda che si manifesta nei suoi movimenti alla moviola — il giocatore sperimenta in prima persona la fatica di rialzarsi e andare avanti tipica di chi ha sofferto una lunga depressione.

The Thin Silence è un gioco sulla rielaborazione: attraversando una wasteland di caverne, campi di rifugiati, basi militari abbandonate e vestigia di una cultura distrutta dovremo risolvere puzzle ambientali (sfruttando un semplice sistema di crafting tra gli oggetti dell’inventario) e collezionare fotografie, lettere, hackerare computer per sbloccare file, collezionare i frammenti di un benintenzionato pamphlet agitatore che ha però contribuito a un’annichilente Rivoluzione Culturale.

 

 

L’accattivante estetica pixel art e la colonna sonora ambient (rumori, static, melodie scarne) hanno indubbiamente il loro fascino, ma c’è qualcosa di non pienamente riuscito in questa fatica del duo australiano TwoPM. The Thin Silence presenta infatti alcuni tipici problemi degli indie che puntano tutto sul minimalismo: il gameplay è di base una pura ossatura che scommette su un totale coinvolgimento emotivo del giocatore. Questo comporta che tanto l’azione di gioco quanto la trama risultano come troncati, lasciati a metà, sineddochi che stanno per qualcosa che il giocatore non riceve mai del tutto.

Raccontare la trama per indizi anziché tramite esposizione è un’arte molto delicata, ed è facile toppare, soprattutto se si mette troppa carne al fuoco: tentando di mischiare temi importanti come depressione e responsabilità politica, TTS — nella sua brevità (5 ore ca.) — sembra prendere troppe scorciatoie argomentative senza averne la maturità sufficiente. L’esperienza è più interessante per le sue ambizioni che non per il prodotto finale, ma val comunque un tentativo se vi sorride l’idea di un titolo veloce basato su rompicapi con suggestivi ambienti 2D.

Giorgio Chiappa ha provato The Thin Silence su Mac.

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Rassegna videoludica di giugno

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Ogni mese i redattori di Ludica ci parlano dei migliori videogiochi che hanno avuto modo di provare su PC e console.

 

Dead Cells
Motion Twin

 

Dead Cells è un gioiello in formato Early Access. Dove altri perdono tempo, risorse e credibilità nel fornire giochi lontani da qualsiasi forma minimamente compiuta, Motion Twin invece abbozza già un mezzo capolavoro. Strutturato secondo le regole di un “roguevania” (Metroid, Castelvania e roguelike nel DNA), Dead Cells vi invita a tentare la sorte e sfidare la morte in un gioco a scorrimento orizzontale, pieno di violenza, segreti, skills da sbloccare e limiti da superare. Ad ogni game over, difatti, ri-partirete dal principio per affrontare nuovi livelli generati e modulati proceduralmente.

L’unica continuità che vi viene concessa di partita in partita deriva dal numero di cellule raccolte, quelle stesse che figurano nel titolo. Ogni volta che il cadavere di un mostro vi lascerà dunque in gentile omaggio una cellula, qualora riusciate a raggiungere la fine del livello, avrete modo di collezionarla per raggiungere il vostro traguardo. Così facendo potrete sbloccare un singolo elemento (armi particolari, bonus attivi e passivi, slot, etc) da portarvi appresso nella partita seguente. Altrimenti non vi resterà altro da fare che digrignare i denti, evitare l’ennesimo rage quit e riprendere il joystick in mano con la bava alla bocca.

Perché Dead Cells è soprattutto un prodigio di eleganza di level design, responsività dei comandi e velocità di azione, ragionamento ed esecuzione. Un agonismo ludico fatto di sotterranei, fruste elettriche, trappole e minacce mortali. The Binding of Isaac che incontra Spelunky e lo infila in un romanzo di Michael Moorcock. Un’esperienza simil-hardcore per un giocatore qualunque che anela a sfidare se stesso. Fiondatevi sul gioco ed esulterete.

Daniele Ferriero ha provato Dead Cells su Windows.

 

Friday the 13th Killer Puzzle
Blue Wizard Digital

 

Vi ricordate Slayaway Camp? Il gioco, del 2016, era un bel puzzle con una grafica un po’ a-la Minecraft, in cui si impersonava un killer chiamato Skullface che in ogni livello deve uccidere tutti i ragazzetti presenti e scappare attraverso una buca verso il livello successivo, con la difficoltà aggiunta di potersi muovere solo orizzontalmente e verticalmente in livelli isometrici e di poter fermare la propria avanzata solo di fronte ad un ostacolo o una vittima. È più facile a giocarsi che a spiegarsi, ma la questione si faceva presto abbastanza cervellotica perché lo scaltro game design, il posizionamento dei malcapitati da uccidere e dell’uscita costringeva a fare delle scelte di movimento controintuitive per completare il livello.

I programmatori di Friday the 13th Killer Puzzle sono gli stessi di Slayaway Camp (Blue Wizard Digital, quelli di Bejeweled e Plants vs. Zombies) e il passaggio da un gioco all’altro non è stato certo la cosa più complessa del mondo: praticamente il gioco si è rifatto la veste grafica e basta. I meccanismi citati in Friday the 13th Killer Puzzle sono intatti, con due differenze: il gioco è chiaramente in combutta con il franchise di Venerdì 13 e si impersona Jason Voorhees, e anziché il finale con buca c’è un’ultima uccisione di un sopravvissuto che comporta un piccolo gioco di abilità e tempo per “centrare” l’uccisione e riempire così la propria “sete di sangue”. Con la sete di sangue si aumenta di livello: ad ogni livello si ottiene una cassa con dentro un’arma che può essere comune, non comune o rara, che non cambiano comunque il gameplay. A loro volta queste armi possono essere cedute in lotti da tre per ottenerne un’altra completamente a caso.

Il gioco è gratis, ma ha degli acquisti in app. Fortunatamente non siamo nel campo del pay to play o del pay to win, perché gli acquisti in app sono solo pacchi di armi o skin del personaggio, che non cambiano assolutamente l’esperienza di gioco ma sono solo un orpello estetico. Si gioca in modalità “Storia” attraverso 12 ambientazioni differenti (8 free to play, 4 acquistabili), dal classico campeggio, a Manhattan, all’età della pietra. Se all’inizio la difficoltà non è eccessiva, dopo il secondo scenario le cose si fanno più toste e vi capiterà di ricominciare da capo, tornare indietro, ripensarci, insomma, diventa una sfida: appaiono livelli con turni limitati, telefoni che se fatti squillare attirano i malcapitati (magari proprio dove non li volevate), gatti da NON uccidere, vie di fuga che dobbiamo chiudere, mine, interruttori della luce, poliziotti. La grafica cartoonesca mista alle tendenze splatter dopo un pochino viene a noia ma viene controbilanciata efficacemente dal sistema di sfida: quando finisci un livello particolarmente difficile impalare l’ultimo nemico con uno spunzone da kebab è abbastanza soddisfacente.

Friday the 13th Killer Puzzle è la risposta alla domanda «cosa succede se unisco ai puzzle più cervellotici lo slasher e un franchising cinematografico?», e a dispetto delle premesse è una bella risposta. Si gioca su Steam, iOS e Android.

Mattia Pianezzi ha provato Friday the 13th Killer Puzzle su Mac.

 

Horizon Chase Turbo
Aquiris

 

Il team brasiliano Aquiris, di Porto Alegre, ci offre con Horizon Chase Turbo un ritorno al gameplay arcade dei vecchi classici del racing game, e lo fa nel miglior modo possibile. Si tratta di un titolo che brilla sotto molti aspetti. Partiamo dalle modalità di gioco: il tour mondiale ci fa gareggiare su ben 109 piste sparse in diverse nazioni, sbloccando a suon di vittorie nuovi tracciati, nuove automobili e nuovi potenziamenti per le stesse; i tornei ci mettono alla prova su quattro piste per volta, mentre le gare di resistenza, come suggerisce il nome, su una quantità di tracciati (12, 36 o tutti i 109!), e in entrambi questi ultimi due casi sarà la classifica finale a determinare il vincitore. In ogni gara bisognerà inoltre fare attenzione ai vari oggetti da raccogliere: benzina, perché se si resta a secco la gara è conclusa a prescindere dalla posizione in cui ci si trova; nitro, per mettere il turbo e recuperare velocemente posizioni, perché, come impone la tradizione, non ci sono prove di qualifica e si parte sempre dall’ultima posizione, in questo caso la ventesima; e infine monete, perché un’ulteriore tipologia di sfida proposta del gioco è arrivare al primo posto dopo averle prese tutte.

Nel tour mondiale inoltre la classica ghost car ci consente di sfidare il nostro miglior tempo su ogni pista, e anche i migliori 50 tempi registrati dai giocatori in tutto il mondo: una volta concluso il tour e ottenute le macchine più veloci e che meglio si adattano al nostro stile di guida, resterà dunque la possibilità di ingaggiare un’interminabile sfida online differita con tutti gli altri possessori del gioco. I tornei sono invece la modalità perfetta per sfidare gli amici in split-screen, con lo schermo che si divide a far spazio fino a quattro giocatori.

Si vede bene come non manchino i contenuti necessari a divertirsi a lungo con Horizon Chase Turbo, ma se questo gioco è così riuscito è anche merito del comparto grafico e di quello sonoro: i paesaggi low-poly sono tutti essenziali ma capaci di cogliere e restituire i tratti tipici del paese in cui si corre, sia esso la Grecia, l’India o il Giappone; non mancano condizioni atmosferiche di ogni tipo, dato che si gareggia sotto la pioggia e la neve, in mezzo a tempeste di ghiaccio e di sabbia, e persino tra la cenere vulcanica; in alcuni tracciati si passa anche dal giorno alla notte o viceversa, e tutto questo viene reso con un uso molto azzeccato dei colori e senza che sia necessario avere chissà quale hardware a disposizione. Una menzione è infine doverosa per la colonna sonora, con brani realizzati da Barry Leitch, lo stesso compositore che ci ha già fatto sognare sulle piste di Lotus Turbo Challenge, Top Gear e Rush.

Gilles Nicoli ha provato Horizon Chase Turbo su Linux.

 

Red Strings Club
Deconstructeam

 

L’orizzonte estetico e filosofico del cyberpunk è, da anni, terreno fertile per scorribande che iniziano ad essere un po’ tutte uguali. Soprattutto nei dintorni dei prodotti AAA si tratta quasi sempre di scegliere la via delle armi e della violenza, o di tentare di cortocircuitare gli altri sabotandone i cervelli artificiali o insinuandosi nella Rete. Red Strings Club, fortunatamente, è molto diverso.

Opera di quel Deconstructeam che ha già tentato di ribaltare la norma con Gods Will Be Watching, si pone standard qualitativi e contenutistici di tutto rispetto. Nonché alquanto bizzarri rispetto al solito. Perché in Red Strings Club, di fatto, vi occuperete d’ingegneria sociale. Per rendere le cose più interessanti, quest’opera verrà curiosamente eseguita fornendo molecole ben precise ai vostri interlocutori, in una sorta di mix tra puzzle game psichico e punta e clicca sui generis.

Nel prendere le redini del barman protagonista vi troverete dunque a distillare cocktails e bevande di ogni forma, sostanza e grado al fine ultimo — e quanto mai ambiguo — di suscitare nel vostro cliente e interlocutore le risposte e le reazioni che voi desiderate. Nel vostro agire, tuttavia, si nasconde un intento parzialmente nobile: quello di indagare una presunta violazione dei diritti del cittadino in senso totalitario e contro il principio del libero arbitrio. Che poi nell’eseguire la vostra indagine, questa rivoluzione silenziosa, vi muoviate portandovi appresso tanta contraddizione è solo sintomatico della complessità che Deconstructeam ama mettere in campo.

Come già in Gods Will Be Watching, a Deconstructeam interessa stimolare il giocatore con le proprie domande e con la possibilità ultima di mettere in campo un discorso ricco di profondità e tutt’altro che univoco. Non a caso, avremo anche modo d’incontrare un’AI con la quale ragionare sulla distanza morale che separa un organismo dall’altro, una intelligenza logica e computazionale al confronto con le potenziali necessità transumaniste a venire. Come risultato, avremo modo di provare un’esperienza videoludica ricca in fascino filosofico, vertigini etiche e scrittura di livello. Con l’unico neo di sacrificare parzialmente la fase strettamente ludica in favore di quella dialogica.

Daniele Ferriero ha provato Red Strings Club su Windows.

 

Shape of the World
Hollow Tree Games

 

Avete bisogno di staccare mentalmente da tutto e da tutti. Avete bisogno di starvene in pace, anzi, perché no, di partire per la tangente, di rimanere a bagno in sogno lucido: giocate — anzi, fate esperienza di Shape of the World.

Se invece volete essere coinvolti dall’azione, da una narrazione forte, ricca e piena di immancabili colpi di scena: lasciate stare Shape of the World.

C’è solo l’ambiente circostante. Colorato e minimale, cangiante, dalle forme mutevoli: a ogni passo può scomparire un albero o un intero boschetto, spuntare un cespuglio, sorgere un crinale, formarsi una pozza d’acqua, materializzarsi uno strano essere alieno che galleggia in aria o in acque trasparenti. Il vostro avanzare in questo strano mondo determina casualmente la sua conformazione. Potete prendervi tutto il tempo che volete: non rischiate nulla. Nessun nemico, nessun cronometro a misurare la vostra performance. La strada la decidete voi. Dovete solo esplorare.

Una missione vera e propria non c’è, tranne forse una linea, a dire il vero molto flebile, che guida questa astrattissima idea di gioco: trovare all’interno di ogni singola mappa un portale di forma triangolare, che vi catapulterà nello scenario successivo. E questo è tutto.

Certo, un minimo di azione è previsto: per andare avanti — ammesso lo vogliate — bisogna interagire con delle strane e gigantesche pietre che emergono dal suolo o dall’acqua; queste pietre, o a volte monoliti dal taglio geometrico, creeranno per semplice reazione dei sentieri da seguire, scalinate sospese a mezz’aria, che vi porteranno in una fitta boscaglia da abbattere, in zone dove raccogliere strane spore e semi da poter subito ripiantare per far sorgere nuovi alberi; oppure innanzi ai già citati portali che generano il cambio di scenario.

Shape of the World è un titolo che si sistema nel solco dei giochi esperienziali; la forte componente estetica e l’assenza totale di conflitto e scopi definiti rendono questo titolo un’occasione di gioco quasi trascendentale — una sorta di opera zen immersa in ambiente flat graphic. Molto suggestiva e indicata se si è predisposti a un lento, calmo viaggio mentale — cullati fra l’altro da un più che dovuto loop di musica ambient — , ma che alla lunga, o forse anche dopo una decina di minuti, dipende da voi, potrebbe risultare già esaurita, noiosa e senza stimoli.

Stefano Felici ha provato Shape of the World su PlayStation 4.

 

Son of a Witch
Bigosaur

 

Sono un patito dei roguelike. Datemi Rogue e mi tenete incollato allo schermo per ore (e infatti custodisco gelosamente in tutti i miei dispositivi una copia di Brogue, non si sa mai); il mio conteggio di ore di The Binding of Isaac: Rebirth è a 116 (ma non tiene conto dell’originale Binding of Isaac); quando ancora non sapevo manco pronunciare “roguelike” passavo le ore su Diablo a ricreare personaggi fino ad arrivare al macellaio per poi ricominciare (sarà che avevo paura di FRESH MEAT?), ottenendo dungeon e lore sempre diversi. L’idea di provare Son of a Witch, definito dal suo sviluppatore un roguelike (ma più un roguelite in realtà) mi intrigava, ma sono rimasto un po’ deluso.

La grafica nei videogame è secondaria al gameplay, o comunque valgono di più videogame con grafica brutta e gameplay incredibile, mai il contrario; Son of a Witch ha fatto la scelta deliberata di una grafica da gioco mobile brutto, un po’ simile a Castle Crashers, che secondo la legge che unisce azione a reazione dovrebbe assicurarci un gameplay ben curato. Proseguendo in questo andazzo “provocatorio” è giusto ricordare come il videogame prima si chiamasse My Mom is a Witch, poi cambiato in Son of a Witch, ma insomma, la battutina è sempre la stessa. La goliardia grafica e di concetto di Son of a Witch non sono riuscite a catturarmi, devo ammetterlo.

Nonostante lo redima un po’ la doppia modalità di gioco, easy per i casual players, hardcore per i patiti del roguelike con generazione procedurale, purtroppo le dinamiche di gioco non sono ben studiate, improntate troppo sulla difficoltà nell’andare avanti e sul permadeath usato come feature nominale banale piuttosto che sulla ricchezza e varietà nel gameplay. Tra gli esempi: il randellamento fisico dei nemici è basico, del tipo “mena a tempo=meni per sempre” perché il colpo del proprio avatar interrompe la preparazione al colpo dell’avversario; i boss sono sempre enormi mostri e nella loro schermata c’è una casa (che a seconda del boss può essere una capanna, un igloo, una caserma, ecc.) da cui spuntano sgherri; le armi sono sbilanciate a favore di quelle a distanza e/o di quelle magiche. La musica e la storia sono banali (ok, non è richiesta troppa storia nei roguelike hardcore, ma almeno provaci); in compenso la funzione di cooperazione a 4 è carina (qualcuno ha detto Gauntlet?), ci sono sfide giornaliere da affrontare aggiornate online e se si vuole passare qualche ora ad uccidere orchi spensierati non è male.

Mattia Pianezzi ha provato Son of a Witch su Mac.

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Rassegna videoludica di luglio

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Ogni mese i redattori di Ludica ci parlano dei migliori videogiochi che hanno avuto modo di provare su PC e console.

 

Cultist Simulator
Weather Factory

 

Con le carte e i mazzi si possono realizzare giochi di ogni tipo: basti pensare al poker, alla briscola, alle carte di Uno, a quelle collezionabili di Magic: The Gathering, a quelle virtuali di Hearthstone (e presto di Artifact, nuovo titolo di Valve). Ma la nuova creazione di Alexis Kenney, già autore di Fallen London e Sunless Sea, si spinge oltre, e propone un sistema di gioco atto a simulare una vita: quella di un uomo degli anni ‘20, incline all’esoterismo, che vuole fondare un nuovo culto. L’oscurità dell’intento si riflette in una completa mancanza di istruzioni: «Explore. Take risks. You won’t always know what to do next. Keep experimenting, and you’ll master it», ci avvisa subito la schermata introduttiva. Il giocatore dovrà imparare tutto da solo quindi, e presto scoprirà la profondità di Cultist Simulator e l’ampia varietà di azioni a sua disposizione. Le carte vanno giocate all’interno di alcuni verbi: “Work”, “Dream”, “Study”, “Explore”, e diversi altri che si rendono man mano disponibili. Facciamo qualche esempio: giocare una carta “Reason” nel verbo “Work” ci consentirà di trovare un lavoro migliore; giocare una carta “Passion” nel verbo “Work” invece ci farà dedicare alla pittura, ricavando “Contentment”. A sua volta una carta come la “Contentment” è utile a placare i propri demoni interiori e a ridurre la paura e altre afflizioni fisiche e mentali che possono portarci alla morte con sorprendente rapidità. Avanzando nel gioco si potrà fondare il proprio culto, accumulare seguaci, rivaleggiare con culti rivali, evocare forze soprannaturali, sempre seguendo sempre questo schema base, ma le cose naturalmente non tardano a complicarsi, e molte azioni richiedono combinazioni di carte diverse. Cultist Simulator è un titolo di grande fascino, e impressiona davvero come un brillante lavoro di game design faccia emergere una narrazione ricca e complessa dal semplice crafting di nuove carte. Ma è anche vero che pochi giochi sono “non per tutti” quanto questo, perché, nonostante gli abbondanti indizi sparsi un po’ ovunque, è tutt’altro che immediato capire quali siano i meccanismi e le regole di Cultist Simulator. Servirà molta voglia, molta applicazione, o ci si ritroverà a lungo di fronte al gioco senza sapere come giocarlo.

Gilles Nicoli ha provato Cultist Simulator su Linux.

 

Epic Loon
Macrales Studio

 

Cosa fareste qualora la vostra benemerita collezione di VHS, costruita con ardore maniacale e curatela filologica degna di un non più giovane con gravi problemi di obesità e scarsa igiene personale – quale voi siete – , questa collezione, dicevamo, venisse brutalmente invasa da parassiti extraterrestri pronti a rovinare i vostri film preferiti? Non lo sapremo mai. Perché, in questo pregevolissimo e ameno platform multigiocatore, noialtri vestiremo i panni dei simpatici alieni, pronti a rovinare la festa all’odioso proprietario con gravi carenze sociali. Nel gioco, che altro non è se non un party game da saggiare beatamente sdraiati sul divano, il nostro scopo sarà quello di arrivare alla fine di ogni livello prima degli altri tre giocatori, che siano umani o simulati. Tentando, nel frattempo, di sfuggire gli interventi guastatori dell’antipatico umano. A fare la differenza rispetto a prodotti della stessa tipologia sono le meccaniche di gioco e gli ambienti all’interno dei quali ci muoveremo. Le prime prevedono una forma particolare di salto a farla da padrone: l’alieno, per muoversi compiutamente, si trasforma difatti in una sorta di pendolo vivente che si catapulta da una parte all’altra della sua traiettoria, dando vita a una modalità particolarmente divertente, goffa e perfetta per darsi noia vicendevolmente. Gli schermi da completare, invece, sono veri e propri frame rivisitati dei film che andremo a infestare (e che non vi spoileremo). Pellicole di genere, dall’horror alla fantascienza e via dicendo, all’interno delle quali salteremo tra titoli di coda, oggetti, protagonisti, elementi di scena e via di questo passo. In particolare, questi frame, sono ridisegnati con uno stile unico dai toni in bianco e nero: visivamente gratificante, personalissimo, appagante e in linea con l’atmosfera del gioco. Ad ogni modo, la compresenza di due varianti denominate “Story” e “Battle” mette in luce tutti i pregi e i difetti di Epic Loon: tra qualche meccanica che sarebbe stata da limare (il sistema di handicap inflitti) e gli elementi di contorno che diventano parte integrante del gioco (nella “Story mode” ripercorriamo la storia dei film, con tanto di stralci di dialoghi, commenti e interventi ultra nerd). Il risultato dice di un gioco dove non tutto è perfetto, ma il cui fascino porta presto alla dipendenza. Soprattutto se accompagnati da altri giocatori umani.

Daniele Ferriero ha provato Epic Loon su Windows.

 

Machiavillain
Wild Factor

 

Scopri Machiavillain e pensi, soprattutto se hai amato tantissimo titoli come Dungeon Keeper, che possa diventare uno dei tuoi giochi preferiti di sempre: proprio come il capolavoro di Peter Molyneux del 1997, qui le premesse di tante avventure videoludiche (e cinematografiche) vengono ribaltate, e al giocatore tocca impersonare le forze del male. Machiavillain ci consente infatti di costruire una casa degli orrori, popolarla di mostri, riempirla di trappole, e invitare tante vittime innocenti e inconsapevoli a fare una brutta, bruttissima fine. I meccanismi di gioco provengono tutti dalla tradizione manageriale e simulativa: raccogliere risorse, progettare i vari spazi, reclutare nuovi mostri (abbiamo a disposizione vampiri, mummie, psicopatici, ognuno con le sue caratteristiche), assegnare loro diversi compiti, e sotto questi profili Machiavillain somiglia a titoli come Prison Architect e Rimworld. Alcuni degli aspetti simulativi sono abbastanza realistici: i nostri visitatori si spaventano se una stanza è buia, e scappano a gambe levate se trovano tracce di sangue dei nostri ospiti precedenti. Altre regole invece sono prettamente stilistiche, e si riferiscono al cinema: la nostra casa degli orrori guadagnerà una più alta reputazione se elimineremo i nostri ospiti secondo i cliché dei film horror, ad esempio eliminando i nostri ospiti solo dopo che si sono separati e si trovano da soli. Di citazioni e strizzatine d’occhio Machiavillain è pieno, e questo sarebbe un altro punto a suo favore. Ma il gioco ha un problema molto grave: è poco divertente, a causa di due difetti che impediscono di godersi l’esperienza di gioco che avevano in mente gli sviluppatori. Il primo riguarda l’interfaccia: non è eccessivamente disordinata ma è macchinosa, ciò che si cerca si trova sempre a distanza di uno o due click in più rispetto a quanto sembrerebbe necessario, e questo, unito alla mancanza di un tutorial completo e al conseguente spaesamento iniziale del giocatore, rende soprattutto le prime partite estremamente faticose; ma anche una volta passate più ore sul gioco resta un senso di incompiutezza e di confusione che rende difficile l’immersione. Insomma, l’interfaccia in Machiavillain è un ostacolo che separa gioco e giocatore. Ma un difetto ancora più grave è il ritmo: il gioco è pieno di momenti morti ed è davvero troppo lento. L’aspetto più frustrante è forse proprio la sensazione di intravedere sempre un divertimento che il gioco stesso rende fondamentalmente inaccessibile.

Gilles Nicoli ha provato Machiavillain su Linux.

 

Minit
JW, Kitty, Jukio, Dom

 

Minit è la soglia minima che si riduce fino a scomparire. Se pensate che un gioco abbia senso di esistere solo al di sopra di una certa quantità di tempo da spenderci assieme, questo rompicapo ludico è qui per farvi cambiare idea. Attraverso un cortocircuito di senso. Pubblicato ad aprile da Devolver Digital e sviluppato da un pugno d’irriducibili sviluppatori indipendenti – una specie di who’s who della scena, a dirla tutta – , Minit, a prima vista, potrebbe farvi aggrottare la fronte pieni di dubbio. In bianco e nero, profondamente retro nella forma e nei modi, ha l’aspetto d’un prodotto fatto scofanare apposta a tutti quei giocatori insaziabili che amano perdersi nelle nostalgie retromani e nelle nebbie del tempo. La sostanza, per fortuna, è del tutto diversa. Perché in Minit la critica teoretica (cioè i ragionamenti intorno ai modi, alle forme e alla teoria del videogioco) si associa alla critica pratica, manifestandosi a fondo nell’eccelso gameplay. Come? Maledicendovi, letteralmente, in un curioso e speculare parallelismo con quella perla nera intitolata Pony Island. In Minit tuttavia sarà il tempo a vostra disposizione a farsi il fulcro del gioco e del discorso. Ogni sessanta secondi, difatti, morirete; a prescindere dalle vostre azioni e dalle scelte sin lì compiute. Dunque, un minuto sarà quanto avrete a disposizione per andare avanti, per indagare, combattere e capire in che guaio siete finiti. O soprattutto come uscirne. Non a caso, dietro l’apparenza di uno Zelda-like (oltre all’ascendenza ideale), Minit si rivela in fretta molto più simile ad un adventure/puzzle game fatto e finito. Gli scontri infatti costituiscono una parte tutto sommato secondaria del gioco, mentre la sostanza sta nella risoluzione degli enigmi. I quali, pur non essendo impossibili o improbabili, sono congegnati a dovere e con intelligenza pratica e ludica. E implicano spesso un uso della materia grigia, della ricerca e soprattutto dell’intuizione superiori alla desolante media odierna. Niente d’impossibile, ma tutto molto piacevole. In ultimo, l’estetica che in un primo momento sembrava così gratuita, si rivela come il coronamento dell’eccellenza che è questo gioco. Un attestato di coerenza. Per un divertentissimo e radicale ragionamento minimalista sulle limitazioni dello spazio-tempo, dei gameplay e sulla natura di quanto amiamo chiamare “videogioco”. Ché, in fondo, ogni istante è importante. Anche fuori dagli schermi.

Daniele Ferriero ha provato Minit su Windows.

 

Moonlighter
Digital Sun

 

Gig economy, mini-job, “carriere flessibili”: le nuove forme di lavoro post-crisi ci vengono presentate con una terminologia tanto accattivante quanto poco trasparente. L’inglese “moonlighting” usa quanto meno una sfumatura più poetica per nascondere una realtà poco desiderabile: è usato per indicare la situazione di chi, per stare a galla, è costretto a fare un secondo lavoro, spesso in orari notturni (da cui il “chiaro di luna” incluso nel termine). Moonlighter – prima fatica, finanziata tramite Kickstarter, dello studio indie Digital Sun – prende questo concetto alla lettera e lo trasforma in gameplay: impersoneremo Will, un abitante della città fantasy di Rynoka che di giorno gestisce un negozio dove vende cimeli e risorse accumulate durante le sue esplorazioni notturne nei dungeon attorno all’insediamento. Primo impiego: gestionale; si richiede esperienza nell’amministrare i prezzi delle merci per mantenere soddisfatta la clientela e avere buoni margini di guadagno, far crescere l’attività e tenere alla larga i taccheggiatori. Familiarità con crafting dell’inventario e city planning (non pretenderete mica di essere l’unico negozio in città, vero? Il mercato ha bisogno di concorrenza, e del resto dovrete pur comprare armi e pozioni da qualche parte). Secondo impiego: rogue-like; ben accetta esperienza con action-rpg e dungeon generati proceduralmente, stracolmi di creature capaci di spaccarci il cranio in un paio di colpi – fondamentali riflessi pronti e pazienza (utile, ma non indispensabile, avere Binding Of Isaac o simili nel CV). I benefit includono un accattivante art style cartoonesco (personaggini e mostriciattoli simpatici e pixelati, discretamente fantasiosi; tendaggi che si muovono al vento, a significare l’idea di abbandono e mistero) e una discreta capacità di assuefare il giocatore sgamato. Si astenga chi desidera una trama complessa (la lore è minimale e trafficata tramite le descrizioni degli oggetti, frammenti di diari nei dungeon e brevi dialoghi con gli NPC) o un’esperienza molto profonda: come nella realtà, il moonlighter difficilmente amerà entrambi i lavori allo stesso modo, e sarà presto alienato dalla ripetitività che finisce inevitabilmente per segnare entrambe le attività. Gli mancherà forse la coesione che un solo lavoro, svolto con più tempo e dedizione, gli avrebbe garantito. Si raccomanda comunque una candidatura da parte di chi è interessato a osservare un interessante esperimento di gameplay “bifronte”; uscirà presto una versione Switch, e il gioco – coi suoi ritmi spezzati e la brevità delle singole fasi in dungeon e città – potrebbe costituire un perfetto passatempo portatile.

Giorgio Chiappa ha provato Moonlighter su PlayStation 4.

 

Radiis
Urban Goose Games

 

Riuscite a immaginare un gioco di strategia a turni in cui non ci sono unità da muovere? Lo ha fatto lo studio canadese Urban Goose Games, proponendo in un titolo molto interessante come Radiis che, fedele all’idea che imporsi delle limitazioni stimoli la creatività, propone esattamente un gameplay di questo tipo. Il gioco offre campi di battaglia divisi in tanti esagoni simili a quelli di Civilization, che si differenziano tra loro per altezza (le posizioni più elevate hanno importanza strategica ma forniscono poche risorse) e per tipologia (maggiori risorse arrivano da foreste, prati e zone fertili; molto poveri invece i terreni rocciosi, desertici o innevati). Espandersi su queste mappe significa costruire delle fortificazioni, abbattere quelle nemiche, esercitare un’influenza sulle zone circostanti, conquistando nuove caselle senza “muovere” mai. Sorprende quanto dinamiche possano essere le partite in un gioco apparentemente così statico. Merito delle costruzioni a disposizione che non sono moltissime ma sono ben diversificate e soprattutto ben bilanciate tra loro: alcune servono più ad offendere, altre per difendere, altre ancora aiutano a sottrarre caselle agli avversari, e ognuna ha un diverso raggio di azione. Merito anche della gestione delle risorse necessarie a costruire, che incentivano una rapida partenza alla conquista delle caselle libere e premiano la distruzione delle strutture avversarie dandoci punti necessari a costruire facilmente anche le fortificazioni più costose, che sono poi quelle cruciali per la vittoria: grazie a questo meccanismo è sempre più importante la mossa successiva rispetto alle posizioni acquisite. L’interfaccia ci tiene inoltre costantemente aggiornati sulla quantità di risorse a disposizione di ogni fazione e sulla percentuale di mappa controllata. La conquista di un certo numero di caselle è la condizione di vittoria. Se la campagna di Radiis fornisce un buon numero di scenari, introducendo gradualmente i vari elementi di gioco e fornendo un buon livello di sfida (soprattutto nelle modalità più difficili, che concedono all’IA un moltiplicatore di risorse), l’editor di mappe e l’integrazione con lo Steam Workshop promettono di dare una considerevole longevità al gioco.

Gilles Nicoli ha provato Radiis su Linux.

 

The Swords of Ditto
onebitbeyond

 

The Swords of Ditto è la sagra del videogioco sotto l’egida di Cartoon Network. Un vero e proprio sogno ad occhi aperti per chiunque ami o abbia amato l’estetica di Adventure Time, Steven Universe, Gravity Falls, Over the Garden Wall, Rick & Morty, Regular Show e via di questo passo. Ovverosia ciò che è stato prodotto da un universo di illustratori, disegnatori e creativi indipendenti e un po’ squinternati che si sono trovati a illustrare cartoon e show per bambini (ma non solo…), per guastarne irrimediabilmente le menti a furia di ilarità demenziale e psichedelia colorata. Di quel patrimonio, The Swords of Ditto si è nutrito a dovere e ha fatto tesoro, rilanciandolo però in una versione tutto sommato innocua, coccolosa, colorata e adatta ai più piccoli: deliziosa nelle forme e nel risultato, quasi perfetta nella resa puramente visiva. La storia, invece, è in fondo quasi un pretesto, e prevede che il protagonista sia un classico ed archetipico eroe che viene scelto per combattere il male manifestatosi a più riprese nel corso dei secoli. La struttura del gioco, difatti, prevede sì che passiate le vostre giornate virtuali a combattere mostri a destra e a manca, recuperare magici, irresistibili, artefatti (un vinile roteante, tanto per spoilerarne uno) e migliorare le vostre probabilità di successo all’aumentare del livello e/o usufruendo dell’ausilio di adesivi speciali da appiccicare sopra le vostre armi ed armature. Però, al termine di questa particolare preparazione atletica (che prevede anche un buon numero di dungeon, scoperte accessorie, scorciatoie, sorprese esoteriche a vario titolo), verrete letteralmente costretti a sfidare il male in persona, Mormo, entro un tempo dato. In maniera del tutto bizzarra, vi troverete in una dinamica simile, benché più user friendly e convenzionale, rispetto a Minit. Dove lì s’incontra inopinatamente la morte, qui si affronta per forze di cose il Male assoluto. Che riusciate o meno nel vostro intento, poi, l’amara sorpresa: al prossimo ciclo vestirete i panni del nuovo eroe e vi troverete nuovamente a combattere, seppure in un mondo lievemente diverso e generato proceduralmente. E per l’ennesima volta sarete costretti ad affrontare forzatamente Mormo, che ne usciate vinti o vincitori. Proprio come nell’eterno viaggio dell’Eroe, che appartenga a Michael Moorcock o a Joseph Campbell. Tutto inutile, dunque? Non proprio… ma il come e il perché, o come uscirne, lasciamo che siate voi a scoprirli. Basti dire che vi troverete sempre alle prese con uno pseudo dungeon-crawler costituito da elementi simil roguelike e una struttura di gioco dall’impianto ciclico, se non proprio eterno. Il gioco, che supporta il coop, è piacevolissimo. Purtroppo, però, soffre di diversi squilibri e scelte di gameplay non sempre condivisibili o persino comprensibili. La sensazione è che gli sviluppatori stiano ancora calibrando in parte le potenzialità dell’universo di Ditto, nonostante non si sia più in Early Access. Non è peraltro improbabile che derivi proprio dal rush finale in occasione della pubblicazione. Non una giustificazione, ma la speranza che le potenzialità del gioco vengano presto espresse a dovere.

Daniele Ferriero ha provato The Swords of Ditto su Windows.

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Dalla parte della polizia

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Il mondo dell’intrattenimento non manca di offrire occasioni per identificarsi con le forze dell’ordine: basta accendere la televisione a qualsiasi ora del giorno o della notte per imbattersi in detective, commissari, carabinieri, poliziotti e agenti speciali protagonisti di quel film o di quella serie tv. Sono di gran lunga la categoria più rappresentata. In ambito videoludico, invece, tutto il contrario: nei videogiochi i poliziotti sono quasi sempre al massimo degli antagonisti. 

Quando giochiamo, in effetti, parte del divertimento sta nel fare cose che nella vita reale non faremo (o non faremmo) mai, e se alcune volte si tratta di esperienze rare e improbabili come allenare una squadra in Premier League o costruire una città da zero, o di esperienze impossibili come riunire il Giappone feudale e diventare lo Shogun, molte altre volte si tratta di esperienze criminali; e in questi ultimi casi le forze dell’ordine sono semplicemente l’ostacolo più naturale da inserire nel gioco come elemento di sfida per il giocatore che deve raggiungere un determinato obiettivo, sia esso superare ogni limite di velocità in Need for Speed, completare una rapina in Payday, o commettere un omicidio in Grand Theft Auto. 

Eppure se c’è una cosa che Georges Simenon, Arthur Conan Doyle e Rai Fiction ci hanno insegnato, è che l’attività investigativa è un fenomenale meccanismo generatore di storie; e per fortuna negli ultimi mesi sono usciti un paio di videogiochi davvero interessanti che vanno ad esplorare questo territorio troppo trascurato, facendoci giocare, per una volta, dalla parte della polizia.

This Is The Police è allo stesso tempo un gioco d’avventura e un gestionale. Sviluppato da Weappy Studio, piccola software house bielorussa, ci fa vestire i panni di Jack Boyd, capo della polizia della città di Freeburg. Dato che il pensionamento è alle porte, negli ultimi sei mesi di servizio il suo principale pensiero, vale a dire l’obiettivo del giocatore, sarà quello di mettere da parte una ricca buonuscita personale da mezzo milione di dollari.

 

 

Nel frattempo dovrà gestire la propria squadra di poliziotti e di detective, risolvere casi raccogliendo prove e conducendo interrogatori, rispondere alle chiamate di emergenza che provengono da ogni parte della città, scegliere quali agenti mandare sul posto, e quando fornire rinforzi, o quando chiudere un occhio per fare un piacere a qualcuno, cercando di non compromettere del tutto i propri rapporti con il potere politico e con la mafia. Lo scenario, si vede subito, è ricco di zone d’ombra e rimanda più a The Wire che a Il Maresciallo Rocca.

La storia procede di giorno in giorno e viene narrata con uno stile da graphic novel che visivamente ben si lega al design dell’interfaccia di gioco. Il tocco di classe? C’è anche la possibilità di collezionare dischi, e di usarli come colonna sonora della propria giornata in ufficio; il tutto grazie ad un catalogo che permette di scegliere quali album acquistare e persino quali future uscite prenotare.

Una volta completata la storia diventa disponibile una modalità sandbox, senza alcun limite di tempo, con nuovi crimini e infiniti casi per i detective; la sfida è restare a capo della polizia il più a lungo possibile, con un livello di difficoltà in costante crescita. La longevità del gioco aumenta così in maniera considerevole. 

Beat Cop, sviluppato dallo studio indipendente polacco Pixel Crow, pesca invece a piene mani dall’immaginario anni ‘80 di Miami Vice, e ci mette nei panni di un poliziotto di quartiere, figura mitologica berlusconiana ma realtà molto comune oltreoceano, nel nostro caso un ex detective accusato di aver fatto sparire dei diamanti dalla casa di un senatore e perciò sbattuto, nella migliore tradizione punitiva, non a dirigere il traffico ma quasi: a pattugliare i marciapiedi di New York.

 

 

Anche in questo caso la storia procede di giorno in giorno: il nostro compito principale sarà spesso solamente quello di fare un certo numero di multe, ma dovremo anche pensare a come riscattare la nostra reputazione (oppure no), e in ogni caso godremo di una notevole libertà, e quindi ad esempio potremo fare multe legittime, fare multe a caso, cancellare multe in cambio di mazzette, o anche passare il tempo a chiacchierare con i negozianti e non fare alcuna multa, subendone le conseguenze.

 

 

La gestione del tempo a disposizione qui è al centro del game design, come gli sviluppatori hanno spiegato a Kotaku qualche tempo fa; la strada trabocca di vita in pixel art, incontriamo persone, succedono cose, e non sarà mai possibile seguire ogni pista, intervenire in ciascun evento, arrestare qualsiasi criminale e verificare tutte le attività sospette, e questo garantisce un certo margine di rigiocabilità. Bisognerà sempre fare delle scelte e perdersi qualcosa, proprio come nella vita vera.

 

This Is The Police e Beat Cop sono disponibili per piattaforme Windows, Mac e Linux, e sono stati provati sulla più recente versione LTS di Ubuntu.

 

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Personaggi storici e come inserirli nei videogiochi

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La storia nei videogiochi è sempre in grande scala: che si tratti di seguire quasi per intero il percorso dell’umanità nella serie Civilization, o di concentrarsi su periodi particolari, come il medioevo in Crusader Kings, per non parlare delle ricostruzioni più o meno fedeli di ogni tipo di unità militare aerea, navale o di terra nei giochi di guerra ambientati durante il secondo conflitto mondiale, l’inquadratura è per così dire spesso un campo lunghissimo, quasi mai una mezza figura o un primo piano. Eppure non v’è di certo carenza di singole personalità a cui fare riferimento, tra sovrani, papi, condottieri, mistici, pittori, scrittori, compositori, scienziati, inventori. Mi sono proposto allora di andare alla ricerca di approcci di questo genere, in cui si gioca con la popolarità e le caratteristiche di personaggi storici conosciuti da chiunque o famosi perlomeno nel loro campo, e ho selezionato tre titoli abbastanza recenti, che trovate qui in ordine di crescente coinvolgimento dell’elemento storico nel gameplay.

 

 

Partiamo dunque da personalità passate alla storia in cui ci si imbatte quasi per caso: in una delle migliori avventure uscite negli ultimi tempi, The Darkside Detective, troviamo ad esempio i fantasmi di Poe e Lovecraft che litigano tra loro in una biblioteca infestata. Questo avviene nel secondo dei sei casi su cui devono investigare il detective McQueen, vale a dire il giocatore, e la sua fidata spalla Dooley; due personaggi ben caratterizzati, a cui è difficile non affezionarsi, che danno vita a dialoghi spesso irresistibili, anche perché Dooley, un po’ fifone, un po’ pigro e un po’ sinceramente disinteressato alle indagini, è pure un imperterrito complottista sempre pronto a dubitare dell’autorità, incapace oltretutto di rendersi conto di come, in qualità di poliziotto, l’autorità lui in realtà la rappresenti.

Tutta l’avventura, breve (l’ho finita in meno di due ore) e abbastanza facile (non ho mai avuto bisogno di consultare qualche guida), gode di un livello di scrittura decisamente superiore alla media, e presenta situazioni e npc sempre molto divertenti: due in particolare, il giornalista e il prete surfista, son davvero notevoli. Indovinata è poi la scelta di inserire alcuni semplici puzzle da risolvere, veri e propri minigiochi che diversificano il gameplay rispetto al tradizionale uso degli oggetti sugli scenari. Molto efficace si rivela anche l’idea di presentare separatamente diversi casi, non collegati tra loro, che potrebbero essere altrettanti episodi autoconclusivi di una serie televisiva che segua il modello del mostro-della-settimana. Sono proprio le serie tv, in particolare X-Files e Twin Peaks, come accadeva già in Thimbleweed Park, a rappresentare le maggiori fonti di ispirazione e a venire più volte omaggiate; l’idea stessa del darkside poi non è lontana da quella di upside down vista in Stranger Things.

Una menzione è poi doverosa per la colonna sonora realizzata da Ben Prunty, già autore di quella di FTL: Faster Than Light, che qui davvero riesce a incidere in modo sostanziale sulle atmosfere del gioco. I motivi, debitori dello stile di John Carpenter, restano legati a doppio filo a The Darkside Detective: troppo adatti a questo gioco per immaginarlo accompagnato da musiche diverse, troppo memorabili per ascoltare in seguito queste tracce senza ripensare alle incredibili esperienze di McQueen e Dooley.

 

 

Un espediente piuttosto tradizionale per inserire personaggi storici in una narrazione è quello del viaggio nel passato, che consente inoltre di rappresentare liberamente epoche e ambientazioni differenti senza alcun vincolo di coesione: è quello che accade in un’altra avventura, Kelvin and the Infamous Machine.

L’antefatto è molto semplice: il solito scienziato pazzo costruisce una macchina del tempo, ma quando la presenta alla comunità scientifica viene preso in giro e ridicolizzato perché la sua invenzione somiglia decisamente ad una cabina per la doccia. Per vendicarsi, lo scienziato inizia a viaggiare nel tempo e nel suo delirio megalomane impedisce a Ludwig van Beethoven, Isaac Newton e Leonardo da Vinci di esprimere il proprio genio, sostituendosi a loro e attribuendosi ogni merito. Peccato che tutto ciò stia finendo col distruggere la fibra stessa del tempo: Kelvin, l’imbranato assistente dello scienziato, dovrà rimettere a posto le cose, aiutando questi grandi personaggi a tornare padroni delle loro opere e del loro ruolo nella storia e, contestualmente, salvando il mondo.

Le premesse sono quindi quelle demenziali tipiche di tanti titoli anni ‘90 ormai classici: in particolare, non si può fare a meno di pensare, parlando di avventure e di viaggi nel tempo, a Day of the Tentacle e all’incontro con i padri fondatori degli Stati Uniti d’America. Qui i personaggi storici sono ancora più centrali nella narrazione, anche se è impossibile parlare del modo in cui vengono caratterizzati senza rovinare un bel po’ di sorprese a chi ancora non ci avesse giocato. Per farvi capire la gravità delle situazioni che vi troverete ad affrontare, vi dico solamente che incontrerete un Isaac Newton per nulla incuriosito dalla gravità e invece super concentrato sulla stesura di una fan fiction.

 

 

Naturalmente, il massimo grado di inserimento possibile per un personaggio storico in un videogioco è il ruolo giocabile del protagonista: The Curious Expedition, un titolo rivolto a tutti coloro che amano l’epoca delle grandi esplorazioni geografiche, permette di impersonare diversi esimi naturalisti e antropologi, come Charles Darwin, Richard Burton, Frederick Selous, Mary Kingsley, Isabella Bird e — attenzione — Johan Huizinga, l’autore di Homo Ludens, il saggio da cui la rubrica che state leggendo prende il nome (cinque alto agli sviluppatori). Se la vostra parte preferita di L’arte di collezionare mosche è quella dedicata alla vita di René Malaise, se avete consumato le pagine di Alla conquista di Lhasa, questo sarà per voi il gioco definitivo.

Lo scopo è dunque organizzare una spedizione, scegliere i compagni di viaggio e l’equipaggiamento ottimali e partire all’avventura verso le ancora inesplorate terre del Sudamerica, dell’Africa o dell’Artico, sperando di riuscire a riportare a casa — in Inghilterra — sia la pelle che un ricco bottino di preziosi ed esotici manufatti da donare al British Museum in cambio di gloria imperitura; il giocatore è in competizione con altri illustri esploratori: la condizione di vittoria è tornare in patria con più materiale di quanto ne abbiano raccolto i concorrenti.

La scelta tra vari personaggi è ovviamente funzionale al gameplay: ognuno ha determinate qualità che garantiscono relativi vantaggi e svantaggi da comparare e da tenere bene a mente, dato che, per quanto si sia ben preparata la propria spedizione, ad aspettarvi negli infiniti mondi generati dal gioco, a frapporsi tra voi e la conclusione di ogni esplorazione (che avviene una volta raggiunta la piramide dorata sempre collocata da qualche parte sulla mappa), ci saranno inevitabilmente l’imprevisto e la fatalità: bisognerà vedersela con una fauna feroce, sarà necessario scendere a patti con le popolazioni native, contrattare baratti e ottenere ospitalità nei villaggi o nelle missioni; si scopriranno antiche rovine da depredare senza ritegno, protette però dalle arcane, incontrollabili e vendicative forze che vi risiedono fin dalla notte dei tempi; soprattutto, ci sarà da tenere in forma il proprio gruppo, che necessita di cibo e di riposo, con il temibile indice della sanità mentale sempre pronto a crollare sotto i vostri occhi e a causare misteriose sparizioni, cleptomania, alcolismo, cannibalismo e altre situazioni spiacevoli, soprattutto se vi trovate nelle più remote regioni di un continente sconosciuto.

 

The Darkside Detective, Kelvin and the Infamous Machine e The Curious Expedition sono disponibili per piattaforme Windows, Mac e Linux, e sono stati provati sulla più recente versione LTS di Ubuntu.

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Allenare la mente con i videogiochi

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Il sudoku, le parole crociate, quindi La settimana enigmistica e un buon numero di riviste simili, e poi rubriche come Scherzi da Peres su Linus, ma anche libri come quelli di Martin Gardner dedicati agli indovinelli matematici: sono soprattutto edicole e librerie a fornire materiale utile, come si usa dire, ad “allenare la mente”;  i videogiochi invece vengono visti soprattutto come strumenti per allenare i riflessi o la coordinazione. Eppure nel settore videoludico non mancano proposte indirizzate a chi voglia cimentarsi in sfide del genere; se anche nel divertimento vi piace trovare la richiesta di un reale impegno intellettivo, attenzione ai titoli che presentiamo in questa nuova puntata di Homo Ludens, perché sono in grado di mettere alla prova il vostro ingegno e di procurarvi più di qualche serio grattacapo.

 

 

Iniziamo da Cosmic Express, nuova creazione degli stessi sviluppatori già responsabili dell’incantevole A Good Snowman Is Hard To Build. Ogni livello qui è una colonia spaziale protetta da una campana di vetro che ha una sola entrata e uno o più fori di uscita: il giocatore ci arriva alla guida di un trenino (il cui pilota risulterà familiare a chi conosca il titolo precedente) e deve disegnare su una griglia un percorso che consenta di far salire a bordo alcuni simpatici alieni, per poi farli scendere in corrispondenza di certe strane scatole pronte a trasformarsi nelle loro abitazioni. Le varie colonie sono poi raggruppate in costellazioni, ognuna delle quali ha livelli di varia difficoltà; in questo modo prima ci si impadronisce delle meccaniche di gioco e poi si comincia a mettere a frutto quanto imparato in situazioni via via sempre più complesse. A rendere più difficili le cose interverrà poi l’introduzione di nuovi elementi come teletrasporti o creature gelatinose che renderanno inservibili ad altri alieni i vagoni sui quali solo salite, determinando così ordini di priorità con cui le cose possono iniziare a farsi davvero complicate. Non ci si illuda quindi di fronte alla grafica coloratissima e ai personaggi adorabili: la difficoltà di Cosmic Express è graduata con intelligenza e va da sfide elementari, poco più che tutorial, fino a livelli di sfida estremi e proibitivi, laddove la disposizione degli alieni da raccogliere e delle scatole verso cui condurli è infida, e la sola soluzione esistente è tanto intuitiva e lapalissiana a posteriori quanto impossibile da identificare senza aver prima proceduto per tentativi ed errori, arrivando persino a dubitare della sua esistenza.

 

 

Se avendo a che fare con colonie nello spazio ci si può aspettare qualche briga, quanto può essere difficile uscire da una piscina, o da un fiume o dal mare? In fin dei conti, non molto di meno, se abbiamo a che fare con Swim Out: un gioco molto elegante, sia a livello grafico che di concetto, sviluppato a Metz, in Francia, dal duo marito e moglie che ha dato vita a Lozange Lab. Qui, nei panni di un nuotatore, bisognerà guadagnare l’uscita dall’acqua facendo bene attenzione a non scontrarsi con altri bagnanti, e gente che prende il sole sui materassini, o sta seduta a bordo vasca, o è pronta a tuffarsi, e insomma elementi di disturbo di ogni risma: il giocatore dovrà osservare con attenzione i pattern seguiti dai vari ostacoli e capire di conseguenza quale percorso consenta di attraversare il livello evitando ogni collisione. Il gameplay si diversifica poi grazie alla progressiva introduzione di nuove varianti: i cordoli limitano le nostre possibilità di movimento e i getti d’aria ci fermano per un turno, mentre alcuni oggetti, come palloni e salvagenti da tirare, al contrario ci vengono in soccorso e possono essere usati per ottenere alcuni vantaggi, talvolta essenziali. La presentazione minimale, i colori tenui, l’assenza di musica e l’abbondanza di suoni estivi e acquatici contribuiscono a generare un’atmosfera rilassante che rende impossibile perdere la pazienza anche quando le cose si fanno più difficili.

 

 

Il terzo gioco di cui parliamo è uscito ormai un anno fa ma sembra il titolo perfetto da affrontare in questi giorni, con lo spirito di Halloween non ancora del tutto sopito: Slayaway Camp mette infatti il giocatore nei panni di un pazzo omicida il cui obiettivo è uccidere vari teenager che si trovano in campeggio. I livelli vengono presentati come spezzoni di film immaginari a cui è possibile accedere avanzando nel gioco, che si rivela essere così anche una parodia e un omaggio agli horror movie degli anni ‘80, con musiche e ambientazioni ed effetti sonori ad hoc, sempre in bilico tra distacco ironico e immersione, e diverse trovate poi sorprendentemente riuscite. Il livello di sfida è inizialmente molto basso, ma anche qui le cose non tardano a farsi più complicate: tale è la follia omicida del nostro alter ego che ogni volta che si sposta in una direzione la segue finché non incontra un ostacolo: perciò se non si pianificano con cura i propri movimenti si finisce facilmente per restare bloccati, non potendo più raggiungere un bersaglio o l’uscita dal livello; ci sono inoltre trappole mortali da evitare o di cui approfittare, così come caselle sorvegliate dalla polizia, e scenari da completare in un numero prefissato di mosse. Bisognerà dunque sfruttare tutte le tattiche a nostra disposizione: avvicinare una vittima per farla scappare, far squillare un telefono per farle cambiare posizione, rovesciare oggetti per modificare le proprie possibilità di movimento. Slayaway Camp offre inoltre una modalità meno truculenta, priva di sangue e di scene splatter,  anche se c’è da dire che la violenza del gioco è già stemperata dal fatto che i protagonisti siano tutti dei pupazzetti cubici.

 

Cosmic Express, Swim Out e Slayaway Camp sono disponibili per Windows, Mac e Linux, e sono stati provati su Manjaro; se preferite lo smartphone, li trovate tutti e tre anche su Apple Store e Google Play.

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Giochi nuovi per vecchi nostalgici

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Il passato, non è più una novità, da diversi anni sta tenendo in pugno il presente: tra remake e sequel cinematografici, dischi raccolti in cofanetti vari o ristampati in edizioni deluxe, è chiaro ormai come l’industria dell’intrattenimento consideri la nostalgia una miniera d’oro. Se basta fare leva sui ricordi per produrre contenuti di sicuro successo, perché mai rischiare investendo in qualcosa di nuovo?

Neanche il mondo videoludico è rimasto esente da questa tendenza, come dimostrano i trionfali ritorni di due console Nintendo classiche come NES e SNES, o le rimasterizzazioni delle avventure grafiche di una volta di cui abbiamo già parlato quando ci siamo occupati di Thimbleweed Park; o ancora, il numero sempre maggiore di canali Twitch dedicati al retrogaming, come Kenobisboch. Il cerchio poi si chiude se pensiamo alla recente operazione di Netflix, che ha scelto di accompagnare il lancio della seconda stagione di Stranger Things, serie nostalgica per eccellenza, pubblicando su Apple Store e Google Play un gioco a tema per tablet e smartphone, con grafica rigorosamente in stile 8-bit.

Il segreto sta nel riprendere formule vincenti mai davvero invecchiate, dare loro una nuova veste e tornare a proporle ai giocatori senza troppi stravolgimenti: non solo hanno già dimostrato di funzionare perfettamente, ma ora una patina di ricordi le ammanta e le rende irresistibili anche dal punto di vista sentimentale.

 

 

È quanto hanno fatto ad esempio gli sviluppatori dello studio parigino Lizardcube, che quest’estate hanno pubblicato Wonder Boy: The Dragon’s Trap, nuova versione del gioco uscito nel 1989 per Sega Master System. La storia inizia dove finiva il titolo precedente della serie: Wonder Boy si trova in un castello e, al culmine della sua impresa eroica, è armato fino ai denti e quasi invulnerabile, uccide il boss finale, un drago, e viene però a questo punto colpito da una maledizione, che lo trasforma in lucertola.

Qui comincia la nuova avventura, in cui il nostro eroe dovrà cercare di tornare alla forma umana passando per diverse altre mutazioni, ognuna delle quali gli garantirà nuove abilità, che gli consentiranno maggiori possibilità di esplorazione nel mondo del gioco. La struttura infatti non è lineare: quasi fosse un prototipo di open-world, Wonder Boy: The Dragon’s Trap non è diviso in livelli, e gli ostacoli che impediscono di avanzare nel gioco smettono di diventare tali non appena si acquisisce la capacità di nuotare, di camminare in verticale su alcune pareti, di volare, e così via.

Il game design era dunque piuttosto originale anche all’epoca, e i ragazzi di Lizardcube hanno fatto bene a non apportare alcuna modifica in questo senso: si sono occupati invece di rendere più moderna la grafica con nuovi asset, nuove animazioni e sfondi disegnati a mano, oltre che di realizzare una nuova colonna sonora. In molti apprezzeranno poi la possibilità di passare in qualsiasi momento dalla versione HD a quella a 8-bit, e dalle nuove musiche a quelle originali, e di godersi dunque il gioco con tutte e quattro le possibili combinazioni di grafica e sonoro.

 

 

Si sono spinti ancora più indietro nel tempo gli sviluppatori di Fabraz realizzando Slime-San: si tratta di un titolo che sarebbe stato bene anche in un vecchio cabinato da sala giochi, nel quale si controlla una creatura gelatinosa e la si deve aiutare a uscire indenne da un centinaio di livelli pieni di qualsiasi genere di calamità; essere uno slime ovviamente comporta la capacità di appiccicarsi a qualsiasi cosa e quindi di spostarsi rapidamente anche in verticale, e la velocità conta molto, perché ogni quadro deve essere completato entro un limite di tempo.

Il gameplay è frenetico, la risposta ai comandi perfetta come esige ogni titolo di questo tipo, la colonna sonora chiptune è l’accompagnamento ideale, e si torna insomma proprio ai concetti base e alle origini della storia dei videogiochi, quando l’unica cosa che contava era il divertimento. Tra un livello e l’altro è possibile girovagare in una città per fare acquisti e modificare l’aspetto estetico del proprio slime, oppure per cimentarsi con vari mini-giochi.

La tavolozza dei colori utilizzata è inoltre ridotta al minimo, e questi mondi di solo bianco, blu, verde e viola ricorderanno di certo ai meno giovani i titoli con cui si giocava ai tempi in cui le schede grafiche utilizzavano lo standard CGA, mentre per le nuove generazioni invece immagino valga soprattutto il fascino che è tornato ad avere lo slime e tutto ciò che è gelatinoso.

 

 

Lo studio indipendente Pocketwatch Games, già responsabile del fortunato Monaco, si rivolge invece agli appassionati di un genere ormai quasi caduto nel dimenticatoio come quello degli RTS, gli strategici in tempo reale, con il suo nuovo titolo, Tooth And Tail. Lo si sarebbe potuto collegare a Fantastic Mr. Fox di Wes Anderson, se solo quest’ultimo fosse stato un film di guerra, perché qui a fronteggiarsi ci sono scoiattoli, gufi, volpi, camaleonti, falchi, puzzole e via dicendo.

Il giocatore non controlla direttamente le proprie unità, ma impersona un condottiero che ha diversi compiti: costruire fattorie per avere sempre una buona scorta di cibo, spendere questo cibo per creare le tane dalle quali verranno fuori le proprie armate, e guidare queste ultime sul campo di battaglia, dove il nemico può essere sconfitto sia distruggendo tutte le sue fattorie sia prendendolo per fame, impedendogli cioè di costruirne di nuove. Le fattorie infatti dopo alcuni minuti smettono di produrre cibo, e si è presto costretti a muoversi lontano dalla propria base iniziale: questo fa sì che le partite a Tooth and Tail siano sempre piuttosto rapide, e le sfide online, che sono il cuore del gioco, spesso infatti si concludono in meno di dieci minuti.

Sono finiti dunque i tempi in cui bisognava portare viveri e bevande vicino al PC prima di iniziare una sessione di Starcraft, Age of Empires o Command & Conquer. Ma sarebbe un errore pensare che sia un gioco semplice. La generazione casuale delle mappe e il fatto che in multiplayer si debba comporre il proprio set di unità scegliendone sei tra le sedici disponibili rendono le partite di Tooth and Tail sempre diverse e imprevedibili, dove vince di solito chi è più capace di interpretare le situazioni, di adattarsi alla strategia dell’avversario e di prendere le decisioni giuste nel minor tempo possibile. La sua straordinaria profondità gli è già valsa una candidatura a miglior gioco strategico dell’anno, al fianco di produzioni che hanno alle spalle investimenti milionari.

 

Wonder Boy: Dragon’s Trap, Slime-San e Tooth and Tail sono disponibili su PC per sistemi Windows, Mac e Linux, e sono stati provati su Manjaro. Tutti e tre i giochi hanno inoltre alcune versioni console, per cui se siete in possesso di PlayStation 4, Xbox One o Nintendo Switch date un’occhiata ai rispettivi siti.

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«Sembra che le cose non sempre vadano nella direzione che ti aspetti» — Intervista ai creatori di Owlboy

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Ho passato gli ultimi mesi chiedendomi quale fosse il modo migliore per chiudere questo primo anno di Homo Ludens. Ho pensato a un listone o a un qualche tipo di riassunto dell’anno videoludico; poi mi è sembrata invece una buona idea proporre un secondo articolo monografico, dopo quello su Thimbleweed Park, dedicato a un altro gioco che mi fosse sembrato particolarmente importante: la scelta è caduta su Owlboy. Pubblicato per la prima volta nel novembre del 2016, è a tutti gli effetti un titolo di quest’anno, di gennaio per la precisione, dal punto di vista di questa rubrica, dove i giochi vengono provati su Linux. Non è particolarmente lungo né particolarmente difficile, e lo dimostra il fatto che l’ho finito in 11 ore. Però è particolarmente bello, oltre che divertente, originale e a suo modo innovativo.

È la storia di Otus, un giovane gufo muto: nonostante abbia la capacità di volare non si è mai allontanato dal suo villaggio, Vellie, e lì conduce una vita tranquilla, quando una banda di pirati comincia a seminare morte e distruzione nella vicina città di Advent e nelle zone circostanti. Aiutato dal suo amico Geddy, e poi da altri personaggi, Otus dovrà sventare la minaccia costituita dai pirati, scoprendo al tempo stesso qualcosa su di sé e sulla sua gente. Owlboy, frutto di ben nove anni di lavoro, è un gioco perfettamente riuscito sotto ogni aspetto: pixel art, game design, narrazione. Ho fatto due chiacchiere con i ragazzi dello studio D-Pad, i creatori di questa meraviglia, e non ne è uscito fuori solamente un bel ritratto di Owlboy, dei suoi contenuti e del modo in cui è stato realizzato: abbiamo finito col parlare anche di cose che non mi sarei minimamente aspettato.

 

 

Iniziamo con le presentazioni. Quale team ha dato vita a Owlboy e allo studio D-Pad?

Simon: Mi chiamo Simon. Sono co-CEO e direttore artistico di D-Pad. Ho ideato la prima bozza di Owlboy e ne ho diretto lo sviluppo sia come pixel artist che come responsabile del progetto.

Jo-Remi: Mi chiamo Jo e seguo e coordino giorno per giorno le attività di D-Pad. Mi occupo del settore business, ma anche del gameplay, del design e di alcune parti dell’impianto narrativo in Owlboy.

Adrian: Io sono Andrian e il mio focus è sul design e sulla struttura dei livelli, e poi su qualsiasi altra cosa di cui mi possa occupare.

Henrik: Io sono Henrik, mi sono occupato della programmazione e della scrittura della storia di Owlboy.

Come vi è venuto in mente di basare il gameplay sulla capacità di volare? E come mai avete scelto come protagonista proprio un gufo? Un gufo muto, per giunta.

Simon: L’idea iniziale è stata ispirata da alcuni esperimenti mentali basati su Kid Icarus e Super Mario Bros. 3 per NES. In entrambi questi titoli si gioca con un protagonista che di base ha una qualche capacità di volare. Pit può utilizzare un oggetto per fluttuare, ma non usa mai le sue ali attivamente, e Mario può librarsi in aria usando i costumi Racoon e Tanooki, ma solo in alcune occasioni.

Era un pensiero accattivante quello di avere un mondo che si sviluppa in verticale come quello di Kid Icarus, pieno di stanze segrete e dungeon, ma fare in modo di trasformare l’abilità di Mario nella capacità di sbattere le proprie ali e andare a esplorare gli scenari in altezza. All’inizio lo scopo doveva essere trovare isole nascoste nel cielo. Magari isole abitate da persone che parlano una lingua sconosciuta. Questo concept alla fine ha posto le basi per un protagonista letteralmente muto, che non può comunicare a parole e deve trovare altri mezzi per farlo.

Il gufo non è stata la prima cosa che mi è venuta in mente. Credo che un alieno, un insetto volante e un cane alato fossero i più seri candidati al ruolo di protagonista finché non ho abbozzato un gufo a caso, che aveva un mantello anziché le ali. Questo personaggio ha finito col diventare tutto ciò che è Owlboy.

 

 

Owlboy secondo me somiglia molto a ciò che sarebbe stato Laputa: Castle In The Sky se fosse stato un gioco Nintendo invece che un film d’animazione. Amate le opere di Miyazaki? Quali sono state le vostre fonti di ispirazione?

Simon: Adoro i film di Miyazaki, ma non ne ho visti tanti purtroppo. Inaspettatamente, Owlboy non è stato influenzato per nulla dalle sue opere, dato che fino a qualche tempo fa conoscevo ben poco del suo lavoro. Anche se riesco a trarre ispirazione un po’ ovunque, non si può negare che la serie di Legend of Zelda abbia avuto un discreto impatto sullo sviluppo. Le sagome semplici ma efficaci dei personaggi di Windwaker. La malinconia e i significati reconditi di Majora’s Mask. Per non parlare delle belle ambientazioni e dell’uso del colore. Ma di certo le influenze non si esauriscono con Zelda. Potrei passare un’intera giornata a elencare giochi che sono stati d’ispirazione. La serie di Megaman, Breath of Fire IV, Chrono Trigger e tanti altri titoli che giocavamo in quei giorni. Ma altre cose ancora sono venute fuori viaggiando. Molte delle mie prime bozze erano solamente interpretazioni di posti in cui ero stato. Si sono accumulate tante cose diverse nel corso di nove anni.

Il gameplay mi sembra avere caratteristiche RPG, perché presto si forma una squadra di personaggi; ma Owlboy resta comunque fedele ai princìpi dei classici platform 2D, per quanto poi possa esserlo un gioco in cui si vola: i diversi compagni di viaggio si usano come se si trattasse di equipaggiamenti per combattere, ognuno portando con sé un’arma diversa utile a scopi diversi. È una trovata notevole. Come ci siete arrivati?

Simon: All’inizio, la principale meccanica del gioco consisteva semplicemente nel prendere oggetti per usarli. Abbiamo poi finito col fare qualche prova per vedere cosa succedeva se si potevano portare in giro i personaggi, e ci è sembrato che fosse divertente poterli controllare separatamente. Prendendo esempio da Megaman X, abbiamo pensato che sarebbe stato interessante permettere al giocatore di switchare tra i vari membri del gruppo durante il gioco. Questo si inseriva anche nella narrazione di un Otus incapace di combattere da solo e bisognoso di fare squadra con altri personaggi che lo aiutassero a superare gli ostacoli nella sua vita.

Di sicuro all’inizio questo sistema era molto meno rifinito di quanto non lo sia adesso. In effetti, teletrasportare i vari membri della squadra per via aerea non era una cosa che avevo preso in considerazione. Avevo pensato a cosa mi sarebbe piaciuto vedere un giorno in un ipotetico sequel, e mi ero appuntato questa soluzione, finché all’improvviso non mi sono reso conto che quella era una cosa da implementare subito.

 

 

Questo aspetto del protagonista merita di essere approfondito. A Otus mancano la gloria e i riconoscimenti dell’eroe, ma anche la colpa e la macchia dell’antieroe, dato che in realtà si trova sempre sulla pista giusta, quella che lo porterà a scoprire come stanno davvero le cose nel mondo di Owlboy. Si tratta insomma di un protagonista positivo nel quale però quasi nessuno ripone troppa fiducia. Come mai avete deciso di raccontare la storia in questo modo?

Jo-Remi: Gran parte della storia è venuta fuori durante lo sviluppo del gioco. Per qualche motivo abbiamo finito con il proiettare sui personaggi quelle che erano le nostre frustrazioni e insicurezze. È stato il risultato di una serie di insuccessi, un anno dopo l’altro. All’inizio avevamo annunciato l’uscita di Owlboy per il 2011. Ogni anno abbiamo rimandato la pubblicazione, e ci siamo sentiti un disastro. Solamente nell’ultimo anno di lavorazione i vari pezzi hanno trovato la loro giusta collocazione. La storia del gioco ha iniziato a riguardare sempre meno la minaccia costituita dai pirati, e molto di più i protagonisti stessi.

Henrik: Faceva parte del progetto di Simon fin dall’inizio che Otus non fosse un eroe, e ci è sembrato che questo desse alla storia una forza che altrimenti non avrebbe avuto. Fa in modo che si crei dell’empatia tra il giocatore e Otus, e prepara il contesto per tutte le altre cose che accadono. I personaggi che hanno creduto in Otus diventano molto più significativi, e al giocatore viene voglia di battere il gioco e di mettersi alla prova. Questo impulso alimenta tutte le sequenze successive.

Gli elementi presi in prestito dai giochi di ruolo e la scarsa fiducia di cui abbiamo appena parlato sono ottimi modi per fare in modo che ci si affezioni alla propria squadra. Il modo in cui la si mette insieme è abbastanza meccanico, ma l’amicizia di Otus con Alphonse, Twig e ovviamente Geddy è qualcosa che si può sentire. Ci sono anche momenti molto divertenti. Come sono nati questi personaggi?

Jo-Remi: Inizialmente, Geddy era l’unico personaggio che sapevamo avrebbe fatto parte della squadra. Tutti gli altri erano opzionali (un po’ come in Baldur’s Gate, dove puoi arrivare alla conclusione del gioco senza incontrare tutti i personaggi giocabili).

Durante lo sviluppo ci siamo resi conto che avremmo dovuto dedicare più tempo alla costruzione dei personaggi, e dare loro più spazio nella storia. Volevamo che venissero avvertiti come parte necessaria della squadra. Abbiamo anche scartato alcuni personaggi giocabili per lavorare su quelli che avevamo già. Kernelle era la più importante. In origine era l’ultima a unirsi al gruppo, armata con un lanciarazzi.

 

 

Ci sono anche alcune scene toccanti in Owlboy. Mentre è sulle tracce dell’antica civiltà dei gufi e delle loro tecnologie, il giocatore si sente come in Tomb Raider o in Indiana Jones, poi arriva la guerra con i pirati e ci si trova di fronte al villaggio di Vellie pieno di rifugiati senza più una casa, e al cimitero pieno di vittime dalla città di Advent, e improvvisamente non sembra più un mondo così fantasy. Mi piacerebbe sapere di più su questa scelta.

Jo-Remi: Questa scelta è stata provocata da un tragico incidente nella mia vita. Stavamo andando a cena da un mio caro amico, in occasione del suo imminente trentesimo compleanno. Era in gran forma, era appena andato a vivere insieme alla sua ragazza, e aveva ancora davanti i suoi giorni migliori! Mentre stavamo per arrivare a casa sua, ha avuto un improvviso collasso, e ha perso la vita a causa di un difetto cardiaco di cui non era a conoscenza. Non ho mai vissuto uno shock più sconvolgente.

Questa cosa mi ha fatto sentire fragile. Sembra che le cose non sempre vadano nella direzione che ti aspetti.

In quel periodo stavano cercando di capire cosa fare con la città di Advent. Volevamo che fosse un posto enorme, pieno di nuovi personaggi, di missioni secondarie e di segreti da scoprire. Advent era un elemento del gioco decisamente promettente.

Invece, ho suggerito a Simon: «E se distruggessimo Advent?».

Con il lancio del gioco abbiamo infine avuto la possibilità di vedere la reazione dei giocatori. Le loro facce scioccate mi hanno fatto capire che il messaggio era arrivato.

Simon: Un aspetto importante del mio approccio al game design è che non bisogna aver paura di fare affrontare al giocatore esperienze difficili o spaventose, perché questo aiuta a farle comprendere meglio, e permette di raccontare storie che altrimenti dovresti scartare. I ragazzi possono gestire argomenti sorprendentemente difficili. La cosa importante è presentare questi argomenti in modo che possano essere compresi. La morte e la perdita in Owlboy sono tangibili perché abbiamo rappresentato chiaramente ciò che è avvenuto e quale impatto ha avuto sui personaggi del mondo del gioco.

Finora non ho visto nessuno considerare i temi più duri che abbiamo affrontato. Anche se sospetto che molti altri sviluppatori inconsciamente si tengano alla larga da questi temi per paura di una reazione negativa da parte del pubblico.

Io penso che la gente possa gestire e capire certi argomenti senza problemi.

Come mai c’è voluto così tanto, nove anni, per finire Owlboy?

Adrian: In parte è stata semplicemente questione di trovare il tempo per sviluppare il gioco, tra studio, lavoro e altre responsabilità. C’è poi voluto del tempo per consolidare alcuni elementi di design, e per capire come affrontare l’organizzazione di un progetto così vasto. Lungo il percorso ogni membro del team ha avuto esperienze di vita che hanno cambiato il tipo di storia che volevamo raccontare e il modo in cui lo avremmo fatto. Il game design si è evoluto anche in questo modo. Ci sono state anche occasioni in cui ci siamo resi conto che alcune parti del gioco non erano abbastanza buone, e non si legavano nel modo giusto con tutto il resto.

Simon: Abbiamo fatto molta autocritica con Owlboy e ci siamo rifiutati di pubblicare qualcosa che non fosse all’altezza. Avendo poca esperienza nel settore e non avendo praticamente ancora mai realizzato un solo gioco, abbiamo dovuto imparare strada facendo. Nelle prime fasi abbiamo creato una parte del gioco alla volta, perciò più avanti nello sviluppo è diventato decisamente difficile assemblare queste diverse aree mantenendo una fluidità e una scorrevolezza. Alla fine tagliare alcune cose si è rivelata una buona scelta, ma onestamente penso che l’unica vera risposta a questa domanda sia che è questo il tempo che ci mettono cinque persone a sviluppare un gioco del genere.

 

 

Come avete sostenuto i costi di sviluppo di Owlboy per un tempo così lungo? Avete fatto altri giochi, siete riusciti a ottenere fondi pubblici, avete smesso di mangiare?

Jo-Remi: La nostra principale fonte di finanziamento sono stati mia madre e mio padre. Non perché ci abbiano dato dei soldi, ma perché ci hanno fornito un posto in cui stare, che era tutto ciò di cui avevamo bisogno per completare il progetto. Dato che Owlboy è un gioco 2D in pixel art, non ha richiesto l’utilizzo di strumenti costosi per portarne avanti lo sviluppo, e il nostro team è sempre stato abbastanza piccolo da contenere le spese. Abbiamo pubblicato Savant: Ascent che ci ha dato una piccola spinta, e ci ha tenuto ben nutriti.

Il vostro team è diviso tra Norvegia, Canada e Stati Uniti: in che modo avete lavorato, come siete riusciti a coordinare lo sviluppo?

Jo-Remi: Abbiamo usato principalmente Skype e le e-mail. È stato difficile restare coordinati, ma ce l’abbiamo fatta finora. Non abbiamo mai avuto un vero ufficio, e la nostra sola possibilità era il lavoro da casa. Le nostre vite fino ad ora sono consistite soprattutto nel lavorare sul gioco e mandarci aggiornamenti sui progressi fatti di tanto in tanto.

Non è facile parlarne senza spoiler sulla fine del gioco, ma pensi che potremo tornare nel mondo di Owlboy in futuro, in un altro gioco?

Simon: Se mai visiteremo ancora il mondo di Otus, sarà in una forma non immediatamente riconoscibile.

 

Owlboy è disponibile su PC per sistemi Windows, Mac e Linux, ed è stato provato su Manjaro. Il 13 febbraio 2018 usciranno anche le versioni per Nintendo Switch, Playstation 4 e Xbox One.

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Tra i ricordi di un uomo in punto di morte: Finding Paradise

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Con questo articolo inizia la nostra collaborazione con Ludica, una nuova rivista online dedicata alla cultura del videogioco. Buona lettura.

 

È uscito a inizio anno Finding Paradise, l’atteso sequel del fortunato To The Moon. Tornano in azione i due dottori Eva Rosalene e Neil Watts, il cui compito sarà ancora una volta quello di provare a esaudire l’ultimo desiderio di un uomo che sta per morire. In che modo? Entrando nella sua mente, esplorando i suoi ricordi e cambiando qualcosa: il passato non si può modificare, ma la memoria sì, e dunque c’è sempre la possibilità di far quantomeno credere a qualcuno di aver vissuto la vita che avrebbe voluto vivere.

In Finding Paradise il giocatore ha ben poco da fare, se non seguire l’evolversi della storia. Per fortuna si tratta di una storia ben scritta: evita facili eccessi di sentimentalismo, regala diversi momenti divertenti, approfondisce molti dei temi che affronta, e spiazza con un plot twist inserito al momento giusto. Proprio come farebbe un buon film, o un bel romanzo. Quella che segue è una chiacchierata con Kan Gao, perché non c’è modo migliore per entrare nel mondo di un videogioco che attraverso le parole di chi l’ha creato.

 

 

Ciao Kan. Puoi presentare te stesso e Freebird Games ai nostri lettori?

Eccoci. Mi chiamo Kan, sono lo sviluppatore e il compositore di Freebird Games, uno studio indie che realizza videogiochi narrativi. Probabilmente siamo conosciuti soprattutto per To The Moon e Finding Paradise, una serie che parla di due dottori che viaggiano attraverso i ricordi dei loro pazienti in punto di morte, allo scopo di esaudirne l’ultimo desiderio.

Il tuo gioco precedente, To The Moon, è stato un grande successo. Te lo aspettavi? Ha cambiato il modo in cui ti vedi all’interno dell’industria dei videogiochi?

No di certo; credo sia saggio non aspettarsi mai niente in un’industria di questo tipo, ci sono un sacco di fattori incontrollabili che possono fare in modo che qualcosa diventi importante. Speravo che la storia riuscisse a colpire, è ovvio, e sono grato del fatto che abbia raggiunto molta più gente di quanto avessi potuto immaginare, portandomi sotto i riflettori in un modo che mi ha costretto ad aprirmi di più come persona.

To The Moon, così come Finding Paradise, ha come protagonisti i dottori Eva Rosalene e Neil Watts, il cui lavoro consiste nel viaggiare tra i ricordi dei loro pazienti. Com’è nata questa idea?

Era un periodo nel quale pensavo molto alla mortalità, in parte per via del fatto che mio nonno era spesso malato e ricoverato in ospedale. Mi sono chiesto se avrei avuto dei rimpianti quando fosse venuto il mio momento, e cosa avrei fatto se avessi avuto la possibilità di tornare indietro e cambiare qualcosa. La storia dal punto di vista dei dottori alla fine ha preso spunto da questo.

Finding Paradise è un gioco a sé stante ma anche un sequel di To The Moon: avevi già previsto che la storia dei due dottori dovesse continuare, raccontando nuovi aspetti del loro lavoro?

Sì. Pensavo che l’impostazione della storia fosse molto adatta per una serie, per il modo in cui ogni singola storia si sviluppa, e ogni volta c’è una completa libertà di andare ad esplorare qualsiasi esperienza uno possa fare nella vita. Finding Paradise e To The Moonsono speciali, in ogni caso, nel senso che contengono le due facce della medaglia rappresentata da questa impostazione in modo profondo, e si completano a vicenda.

 

Fonte: press kit

 

Nel frattempo hai fatto uscire A Bird Story, un breve gioco che ora sembra quasi un’anticipazione di Finding Paradise.

A Bird Story era un gioco non previsto, che ho realizzato più per me stesso che per il pubblico. A volte mi chiedo ancora se avrei dovuto pubblicarlo, ma sono contento che, anche se non tutti, molti lo abbiano apprezzato.

In Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi, Zygmunt Bauman ha scritto: “c’è sempre il sospetto che uno stia vivendo una menzogna o un errore; che qualcosa di essenziale sia stato tralasciato, perso, trascurato, non sperimentato o non esplorato; che un obbligo vitale nei confronti del nostro autentico sé sia stato ignorato, o che alcune occasioni di provare una felicità sconosciuta, completamente diversa da qualunque felicità già sperimentata, non siano state colte in tempo e siano ormai perse per sempre”. Pensi che siamo sempre più ossessionati dai rimorsi, dai rimpianti, dalle possibilità che non abbiamo colto e dalle vite che non abbiamo vissuto? E che in qualche modo i tuoi giochi abbiano intercettato un sentire profondo dei nostri giorni?

Penso che in senso stretto la felicità sia legata alla semplicità, e l’infelicità, insieme ai rimpianti e a tutto ciò che ne deriva, è legata alla complessità. Man mano che il mondo diventa più complicato e pieno di scelte e percorsi che confondono, avremo naturalmente più dubbi e affaticamento decisionale. Anche se Finding Paradise si occupa più direttamente del concetto umano di rimpianto, penso che entrambi i giochi parlino in realtà del desiderio di semplicità in mezzo al caos, qualcosa che forse anche molti di noi stanno cercando.

Tutti i tuoi giochi, anche i tuoi primi lavori, hanno la classica estetica dei RPG: è qualcosa che dipende solamente dal software che usi (RPG Maker XP) o ha anche a che vedere con i tuoi gusti come giocatore?

Probabilmente entrambi, come l’uovo e la gallina. Credo che, dato il tipo di giochi che scrivo, quel motore sia il più efficiente nel produrre qualcosa su cui posso avere un controllo completo, in ogni dettaglio. Inoltre, crescendo, i RPG sono stati il mio genere preferito, anche se non sono mai stato un grande estimatore delle parti di combattimento, ho sempre voluto solamente continuare la storia.

 

Fonte: press kit

 

Ti sei anche occupato della colonna sonora di Finding Paradise: com’è stato scrivere sia la storia che le musiche che la accompagnano? Ti ispirano le colonne sonore dei film? C’è un brano, Kinda Like an Indie French Film, che mi ricorda il lavoro di Jean Constantin per I Quattocento Colpi, e ci sono anche altri riferimenti cinematografici nel gioco.

Mi aiuta molto quando sono bloccato! Quando non sono sicuro di come procedere con i dialoghi, ad esempio, scrivere la musica per quella scena crea l’atmosfera e i dialoghi diventano molto più facili – e vice versa. È come un buffer mentale per far venire fuori qualcosa prima in una lingua diversa, e questo aiuta molto. Per quanto riguarda l’ispirazione, sono un grande fan della musica sia per i film che per i videogiochi, da Yasunori Mitsuda ad Alan Silvestri. Parodie come Kinda Like a Indie French Film e Think Quietly sono sempre divertenti da fare.

I videogiochi si stanno prendendo sempre più spazio come medium adatto anche a raccontare semplicemente una storia. Penso a To The Moon e Finding Paradise, ma anche a Oxenfree, a Life Is Strange, ai titoli di Telltale Games. Sono storie interattive, in cui l’unica cosa che conta è la trama. È sorprendente che un’idea così tradizionale sia stata esplorata molto meno rispetto a concetti di game design avanzati come il roguelike o il tower defense. E tu hai già messo qualche pietra miliare su questo percorso.

Penso sia dovuto al fatto che, anche se è un concetto tradizionale, devia molto da quello che è stato il punto di partenza nell’uso del medium videoludico. E forse una parte della ragione per cui sta diventando sempre più prominente negli ultimi anni è che realizzare giochi è diventato più accessibile – per cui anche chi è più che altro uno scrittore, come me, può cimentarsi, laddove studi più grandi hanno molta meno libertà di prendersi rischi simili. Mi aspetto che il trend continui, in modo tale che i giochi diventino più diversificati senza che questo incida sul mercato dei giochi “tradizionali”, poiché ci sarebbero solo più videogiochi sia in termini di quantità che di tipo. Il che è fantastico, perché forse il nostro tipo preferito deve ancora essere fatto.

Quali sono i tuoi giochi preferiti di sempre, e quali tra le uscite più recenti?

La maggior parte dei miei preferiti sono in realtà giochi di ruolo cinesi con cui sono cresciuto e che non hanno mai avuto un rilascio internazionale, tra cui The Legend of Sword e Fairy and Tun Town. Anche la serie Mass Effect e Dragon Age: Origins sono nella lista. Ho anche avuto un debole per una particolare meccanica multi-personaggio di scelta dei dialoghi presente in Divinity: Original Sin, che dà una bella sensazione del tipo scrivi-la-tua-storia che non è presente nella maggior parte dei giochi di quel genere.

 

Tra i ricordi di un uomo in punto di morte: Finding Paradise è apparso la prima volta su Ludica.

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Rassegna videoludica di maggio

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Homo Ludens torna in una nuova veste con i contributi dei redattori di Ludica, che a turno ci parleranno delle ultime novità che hanno avuto modo di provare su PC e console.

 

Conan Exiles
Funcom

 

A pochi giorni dal lancio ufficiale, Conan Exiles mostra tutti i pregi di una strategia early access sfruttata a dovere. Sfruttando il feedback di chi si cimenta col gioco da più di un anno, la Funcom ha rilasciato una versione ripulita dai bug più fastidiosi e ricostruita da zero nei suoi punti meno convincenti — come il sistema di combattimento, che adesso è più realistico e gratificante. L’intento della casa norvegese era chiaro: accaparrarsi una fetta del settore survival che rimane tra i più gettonati su Steam. Il prodotto finale offre tuttavia qualcosa in più, tra dettagli mutuati dai giochi di ruolo e un’ambientazione affascinante.

Certo, al primo impatto con Conan Exiles ci si assesta sui binari del survival più canonico, sullo stile di Ark: Survival Evolved suoi limiti compresi. Primo fra tutti la ripetitività delle azioni, e un certo senso di disorientamento. Ci ritroviamo crocifissi in mezzo a una landa ostile, nudi come mamma ci ha fatti, con lo stesso Conan il Barbaro che ci libera e ci spinge all’avventura. Da lì esploriamo il deserto (ma più avanti incontreremo giungle, montagne e caverne) e familiarizziamo col sistema di crafting, assai elaborato come tradizione del genere, mentre gli obiettivi di gioco ci guidano attraverso i primi passi: costruire un giaciglio, raccogliere materiali, cacciare animali e allestire un falò per cucinarne la carne, dissetarsi da una fonte, respingere i primi nemici. Nel giro di qualche ora, grazie alla buona curva di apprendimento, saremo in grado di tirare su una casa mentre nella modalità online potremo collaborare con altri giocatori per un’esperienza di gioco più pericolosa, ma anche più ricca. Da subito si intravedono le potenzialità di un titolo che ci porterà, con dedizione, a edificare cittadelle su cui regnare — e in cui ospitare, a seconda dei gusti, templi di devozione, fosse per cannibali, mercati di schiavi o feste orgiastiche.

 

 

Quest’ultimo punto ci introduce al piatto forte di Conan Exiles. Il mondo è fedele alle opere di Robert E. Howard, fin dall’editor iniziale che permette di scegliere tra etnie come Cimmeri o Hyboriani. È truculento, brutale, percorso da una certa vena sensuale — la nudità aiuta, e anche il fatto che le fibre muscolari degli ipertrofici personaggi siano più dettagliate delle espressioni facciali. In una parola, è un mondo vivo. L’unico metro di giudizio è la lotta, e ogni cosa ha il giusto prezzo — anche l’aiuto degli dei, che interverranno tramite un avatar, in cambio di un severo regime di preghiere e sacrifici. Le urla dei nemici e i lamenti delle femmine, per citare proprio Conan il Barbaro: questo è quanto offre Conan Exiles, innestato su una classica ossatura survival.

Andrea Cassini ha provato Conan Exiles su PlayStation 4.

 

Crossing Souls
Fourattic

 

Avete mai desiderato che uno vostri film preferiti tra i classici degli anni ‘80, magari Schegge di follia, I goonies o Stand by me ricordo di un’estate, fosse un videogioco? Beh, se lo fosse stato sarebbe somigliato molto a Crossing Souls, sviluppato dallo studio spagnolo Fourattic e pubblicato da Devolver Digital. Ambientato nel 1986, strapieno di riferimenti e citazioni pop in grado di spezzare il cuore ai più nostalgici, il gioco ci mette nei panni di cinque ragazzi che si trovano a vivere un’incredibile avventura nella loro cittadina californiana.

Unità di luogo dunque, ma con una trovata che moltiplicherà i livelli di realtà (come il sottosopra di Stranger Things o i diversi piani temporali di Dark, giusto per tirare in ballo due produzioni Netflix altrettanto legate a quel decennio). Il grado di immersione è notevole grazie alla splendida colonna sonora e alla cura di ogni dettaglio: i walkie talkie, le biciclette, la scuola, il cinema, la casa sull’albero, la tavola calda, la sala giochi, le bande giovanili — tutti gli elementi tipizzanti dell’immaginario anni ‘80 sono là dove ci si aspetta di trovarli, e danno vita a un mondo vivo, coloratissimo, perfettamente reso su schermo in pixel art.

 

 

Il gioco inizia mettendo insieme un gruppo di amici in una prima fase davvero ben scritta che funziona sia come tutorial che come introduzione al gruppo di personaggi giocabili, tutti molto stereotipati proprio come in quei film teen horror in cui è facile capire chi sarà il primo a fare una brutta fine; qui invece si capisce subito quale funzione potrà avere in seguito ogni personaggio: il protagonista servirà soprattutto in combattimento, l’unica ragazza del gruppo è agile e veloce e dunque molto utile quando sarà necessaria rapidità di esecuzione, l’amico forzuto e un po’ in sovrappeso riuscirà a spostare qualsiasi ostacolo pesante, mentre l’amico nerd e secchione consentirà di risolvere molte situazioni grazie a invenzioni e strumenti tecnologici, e poi c’è il fratellino più piccolo, di cui però è impossibile parlare senza spoiler.

Una volta messa in moto la storia, scopriremo una trama che a livello di gameplay è ben diversificata tra sezioni di combattimento, di puzzle solving e di platforming, e spesso per andare avanti sarà fondamentale capire in quale modo (e in quale ordine) è possibile utilizzare le abilità dei vari personaggi a disposizione per sbloccare l’impasse. Alcune perplessità restano sul lavoro di ottimizzazione, considerati i frequenti casi di framedrop in alcune aree, e sulla precisione dei controlli, che rendono frustranti soprattutto certe sezioni platform, ma non si tratta di difetti in grado di rovinare l’esperienza di gioco.

Gilles Nicoli ha provato Crossing Souls su Linux.

 

The Thin Silence
TwoPM Studios

 

Ezra non corre. A mala pena salta — nella lista dei comandi, il tasto è abbinato alla voce “Jump (a little)”, da intendersi letteralmente. Del resto, come dargli colpa: il nostro protagonista è apparentemente responsabile dalla rovina di un’intera nazione, a seguito di una rivoluzione finita male; il peso della responsabilità personale e delle perdite subite lo hanno gettato in una depressione profonda che si manifesta nei suoi movimenti alla moviola — il giocatore sperimenta in prima persona la fatica di rialzarsi e andare avanti tipica di chi ha sofferto una lunga depressione.

The Thin Silence è un gioco sulla rielaborazione: attraversando una wasteland di caverne, campi di rifugiati, basi militari abbandonate e vestigia di una cultura distrutta dovremo risolvere puzzle ambientali (sfruttando un semplice sistema di crafting tra gli oggetti dell’inventario) e collezionare fotografie, lettere, hackerare computer per sbloccare file, collezionare i frammenti di un benintenzionato pamphlet agitatore che ha però contribuito a un’annichilente Rivoluzione Culturale.

 

 

L’accattivante estetica pixel art e la colonna sonora ambient (rumori, static, melodie scarne) hanno indubbiamente il loro fascino, ma c’è qualcosa di non pienamente riuscito in questa fatica del duo australiano TwoPM. The Thin Silence presenta infatti alcuni tipici problemi degli indie che puntano tutto sul minimalismo: il gameplay è di base una pura ossatura che scommette su un totale coinvolgimento emotivo del giocatore. Questo comporta che tanto l’azione di gioco quanto la trama risultano come troncati, lasciati a metà, sineddochi che stanno per qualcosa che il giocatore non riceve mai del tutto.

Raccontare la trama per indizi anziché tramite esposizione è un’arte molto delicata, ed è facile toppare, soprattutto se si mette troppa carne al fuoco: tentando di mischiare temi importanti come depressione e responsabilità politica, TTS — nella sua brevità (5 ore ca.) — sembra prendere troppe scorciatoie argomentative senza averne la maturità sufficiente. L’esperienza è più interessante per le sue ambizioni che non per il prodotto finale, ma val comunque un tentativo se vi sorride l’idea di un titolo veloce basato su rompicapi con suggestivi ambienti 2D.

Giorgio Chiappa ha provato The Thin Silence su Mac.

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